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Dopo St. Imier. Il futuro che non c’é più

Qui, ora, subito. In realtà mai più.
Questa breve formula riassume il sentire diffuso, trasversale, plurale che attraversa la generazione del dopo muro.
Una generazione che si affaccia al mondo e lo crea per se in un tempo che chi è venuto prima vive come dopo. Dopo l’Unione Sovietica, dopo l’egemonia marxista, dopo i marxisti critici che vollero salvare l’insalvabile, dopo la dittatura, la repressione, le infinite calunnie della propaganda dei regimi dell’est e dei loro supporter.
Quest’anno a Torino gli eredi di quella storia non sono riusciti ad entrare nella piazza del primo maggio, quella stessa piazza che nerboruti funzionari sindacali, blindavano con mazze ad ogni voce critica. Sono trascorsi solo 25 anni: un’intera era geologica. Per noi, vecchi, un lieve, tenerissimo, dopo. Per quelli che non hanno conosciuto quella strana isola che era Berlino ovest un semplice ma pesantissimo oltre. Oltre tutto il Novecento. Il secolo delle rivoluzioni e delle dittature, il secolo del capitalismo trionfante.
Gli anarchici più giovani attraversano il nostro tempo con il passo leggero di chi non deve sostenere il peso tremendo che generazioni di anarchici hanno dovuto reggere. Il peso dello strafottente realismo di chi la rivoluzione pretendeva di averla fatta, di chi, pur critico, marciava con le stampelle della scienza che sa la storia e i suoi ineluttabili approdi.
Quando Berlino ha cessato di essere un’isola, quando il mondo è diventato tutto uguale, tra radioline cinesi e panini macmerda fatti in serie è tramontato il sole dell’avvenire.
Non si è certo eclissata la critica o la voglia di vivere diversamente. Non è venuta meno l’indignazione per un mondo intollerabile, per un assetto sociale irriformabile, per un tempo che vive della gloria effimera della merce. I monumenti del nostro oggi sono le torri che bruciano quel che resta del fasto che brilla per una stagione e poi si spegne rapido.
Semplicemente dopo questo tramonto non c’è un nuovo sole, perché l’alba è lontana, forse inattingibile, per alcuni forse persino non desiderabile. Certo non all’ordine del giorno.
A Saint Imier, tra migliaia di anarchici che avevano accolto l’invito per un incontro a 140 anni dalla fondazione dell’Internazionale antiautoritaria, tra tante anime, esperienze, percorsi che si incontravano, riallacciando fili e tessendone di nuovi, questo nodo problematico non è mai stato esplicito. Eppure c’era.
L’ordine del suo discorso si è dispiegato più nei margini che al centro, ma l’ordito sottile che lo reggeva è pur emerso.
La questione della rivoluzione, il tema della transizione sociale, dei suoi modi, oltre che della sua necessità resta, per i ragazzi del dopo muro, sullo sfondo. Relegato tra le questioni del Novecento, nello scaffale dedicato alle ideologie, intese come narrazioni esaustive, dove le singole pagine si perdono. D’altro canto, se pensi che la rivoluzione non fa parte del tuo orizzonte di vita, preferisci che ogni singola pagina, la tua singola pagina non sia mero passaggio di un percorso ma in se esperienza che ti consegni parte del mondo che vorresti.
Da quest’atteggiamento scaturiscono scelte diversissime, spesso tanto divaricate da non riconoscersi – le une e le altre – in un comune percorso. La trama sottesa tuttavia resta.
Ne scaturisce un’attenzione fin maniacale alle relazioni, ai modi in cui si dipana il discorso comune, alla pratica quotidiana. Le modalità d’accesso alla parola, l’uguaglianza formale vengono perseguite con rigore un po’ spossante; la costituzione del se, attraversata – e non per caso – dalla pungolante prassi femminista, diviene fulcro di un’agire politico che investe la vita quotidiana nel profondo.
Niente di nuovo. Certe questioni si sono affacciate sulla scena dei movimenti rivoluzionari oltre quarant’anni fa. Ma sono rimaste ai margini, mentre oggi il margine invade il foglio, lo accerchia, ne fa un’icona appesa al muro, cui guardare con il rispetto dovuto al passato.
La questione ci riguarda, noi rivoluzionari, giovani e vecchi, perché quell’icona rappresenta il cuore stesso che ci costituisce, che anima il nostro agire, che unisce con un filo rosso e nero gli anarchici che nel 1872 si riunirono in un albergo di St. Imier con quelli che si sono incontrati per una settimana invadendo le sale e le strade della cittadina del Jura bernese. Un posto dove le targhe del comune ricordano l’intreccio profondo che portò proprio qui, tra artigiani orologiai tanto bravi quanto ribelli, il congresso che simbolicamente sancì la nascita di un percorso che oggi attraversa le nostre vite.
Se la trama sottesa ma sin troppo esplicita delle organizzazioni piattaformiste che hanno co-promosso l’incontro di St. Imier era il tentativo fallito di proporre una sorta di nuova internazionale libertaria, l’ordito profondo con cui è stato necessario confrontarsi è quello di un neo-anarchismo, che elude il tema della rivoluzione. Un neo-anarchismo che si dispiega trasversalmente rispetto agli schieramenti e alle aree del movimento, dai primitivisti radicali ai pink metropolitani, da quelli che agiscono nelle pieghe del sistema a coloro che ne attaccano i simboli, da chi vive in uno squat a chi si fa la cooperativa. La colla non è il come ma il comune adattamento ad un’epoca che non pare in grado di offrire spazio alla radicalità della rottura rivoluzionaria.
Va da se che il termine adattamento ha in se la mia critica, ma non trova riscontro né soggettivo né oggettivo nelle persone che vivono questi percorsi. Percorsi, che sebbene abbiano una chiara impronta generazionale, tuttavia influenzano per osmosi anche altri compagni e compagne.
Sullo sfondo restano i fatti. Duri come le rocce delle montagne che hanno fatto da cornice all’incontro di St. Imier.
Duri come la violenza estrema dello sfruttamento e dell’oppressione che relega miliardi di persone nell’inferno degli ultimi. Un inferno più fondo e più buio di 140 fa. La piramide sociale è sempre più aguzza: i tempi delle socialdemocrazie sono passati, le logiche disciplinari si impongono a livello planetario, la devastazione ambientale ci porta via il futuro, il ritorno di fondamentalismi è la risposta alle promesse mancate della modernità.
Questi fatti che ci raccontano dell’urgenza dell’anarchia, dell’urgenza di un agire rivoluzionario che spezzi la piramide e apra un tempo altro.
Un tempo che l’esigenza di concretezza che permea tante parti del neo-anarchismo talora prefigura e costruisce. Ora, qui, subito. Ma non basta, non può bastare: oggi come e più di 140 anni fa.
I nostri nemici non ci lasceranno certo spazio perché la pervasività di un modello altro eroda l’immaginario che regge relazioni sociali esistenti, e tantomeno ci consentiranno di intaccarne davvero la costituzione materiale.
Occorre quindi che la rivoluzione torni ad essere all’ordine del giorno. Non è questione di tempi, è questione di orizzonte. Se navighi in mare aperto l’orizzonte ti appare immobile, la terra inattingibile, l’importante è sapere che c’é. Non sai né quando né se arriverai, ma sai che puoi arrivare. Se lo vuoi.
Occorre rompere la fascinazione del presente, che ingabbia l’immaginario ed eternizza l’oggi, un oggi con cui vivi in conflitto, senza tuttavia immaginarne un superamento.
L’incontro di St. Imier, come ogni incontro anarchico, ha vissuto più nelle pieghe che nelle assise di dibattito, spesso rigide, ingessate, talora anche magniloquenti.
Il fatto che tante anime diverse siano riuscite mettersi a confronto è tuttavia un segnale positivo. C’è una comune consapevolezza che spezzare la gerarchia e l’oppressione è l’unico realismo che consentono i tempi che viviamo.
Maria Matteo
(quest’articolo uscirà sul numero di ottobre di Arivista)

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