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Mercanti di morte

Sabato 16 novembre
No ai mercanti di morte!
corteo antimilitarista
ore 15 da piazza Castello

Il 26 e 27 novembre 2019 si tiene a Torino “Aerospace & defence meeting”, mostra mercato internazionale dell’industria aerospaziale di guerra.
La convention, giunta alla sua settima edizione, ha quest’anno un focus sull’innovazione produttiva, la trasformazione digitale per l’industria aerospaziale 4.0.
Un’occasione per valorizzare le eccellenze del made in Italy nel settore armiero, in testa il colosso Leonardo, con un focus sulle aziende piemontesi leader nel settore: Thales Alenia Space, Avio Aero, UTC Aerospace Systems.

La mostra-mercato è riservata agli addetti ai lavori: fabbriche del settore, governi e organizzazioni internazionali, compagnie di contractor. Quest’anno sono attese 900 aziende e i rappresentanti di 26 governi; sono previsti 6.500 incontri diretti. Il vero fulcro della convention sono gli incontri bilaterali per stringere accordi di cooperazione e vendita.
Tra gli sponsor del meeting spiccano la Regione Piemonte, la Camera di Commercio subalpina.
Nelle foto dei meeting passati si vedono alveari di uffici, dove persone eleganti vendono e comprano i giocattoli, che distruggono intere città, massacrano civili, avvelenano terre e fiumi. Giocattoli di guerra. Guerre combattute con armi costruite a due passi dalle nostre case.
Torino è uno dei principali centri dell’industria aerospaziale bellica.
L’industria bellica è un business che non va mai in crisi. L’Italia fa affari con chiunque.
Tra gli acquirenti del made in Italy c’è la Turchia, che impiega contro la popolazione curda gli elicotteri Mangusta prodotti dalla Augusta del gruppo Leonardo. C’è anche lo Yemen che li utilizza contro la popolazione civile per cercare di stroncare l’insorgenza Houti.
A Torino e Caselle c’è l’Alenia, la cui “missione” è fare aerei militari tra cui spiccano gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri made in Europe. Sempre l’Alenia produce droni da guerra. I droni estendono le frontiere del controllo e rendono asettica la guerra, una sorta di videogame mortale. Le ali degli F35 sono costruite ed assemblate dall’Alenia a Cameri, paesino alle porte di Novara.
Giocattoli costosi che hanno un unico impiego: uccidere.
All’aerospace and defence meeting venderanno, oltre a F 35 e Eurofighter Thyphoon, anche droni nEUROn da guerra, satelliti spia, elicotteri Awhero, sistemi ISTAR per sorveglianza, riconoscimento ed acquisizione degli obiettivi, MC-27J Praetorian per i trasporti bellici, gli Hitfist, cannoni per tank e navi… e tanti alti gioielli dell’industria bellica italiana e internazionale.
L’Italia è in guerra da decenni ma la chiama pace, per giustificare le città distrutte, i corpi dilaniati, i bambini spauriti, i migranti che muoiono in viaggio. La chiamano pace ma è occupazione militare, bombardamenti, torture e repressione.
Per trarci in inganno trasformano la guerra in filantropia planetaria, le armi in mezzi di soccorso.
Gli stessi soldati delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CPR, nelle strade delle nostre città, sono nei cantieri militarizzati, sono nel Mediterraneo e sulle frontiere fatte di nulla, che imprigionano uomini, donne e bambini.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. Le sostiene la stessa propaganda: le questioni sociali, coniugate in termini di ordine pubblico, sono il perno su cui fa leva la narrazione militarista. Continued…

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4 novembre. Festa degli assassini!

Il 2 novembre un presidio antimilitarista al Balon ha segnato l’avvio delle iniziative antimilitariste di questo novembre.
Il 4 novembre striscioni e scritte sono apparsi di fronte a monumenti militaristi, in cui, con un discutibile senso del decoro urbano, appaiono armi, soldati, retorica patriottica ed esaltazione delle avventure coloniali dell’Italia.
Lo striscione con la scritta “No Stati, No eserciti è
stato appeso di fronte al monumento, con tanto di cannone da artiglieria, spezzoni di proiettili all’angolo tra corso Vercelli e via Ivrea.
Altro striscione “4 novembre festa degli assassini” è comparso al monumento all’artigliere di montagna, con tanto di targa commemorativa alle imprese in Libia dei militari tricolore.
Il 4 novembre. Una festa che ricorda una guerra di ieri mentre le truppe del Belpaese fanno – in silenzio – la guerra per il potere e le risorse in Iraq, Afganistan, Niger… e altri 33 luoghi del pianeta.

Di seguito il volantino distribuito in questi giorni.

No ai mercanti di morte. 16 novembre manifestazione antimilitarista

Niente pace per chi fa guerra

Il 4 novembre è la festa delle forze armate. Viene celebrata nel giorno della “vittoria” nella prima guerra mondiale, un immane massacro per spostare un confine.
Il 4 novembre è la festa degli assassini. La divisa e la ragion di stato trasformano chi uccide, occupa, bombarda, in eroe.
In questi anni lungo i confini d’Italia si sta combattendo una guerra feroce contro la gente in viaggio, contro chi fugge conflitti dove le truppe italiane sono in prima fila.
I battaglioni d’élite dell’esercito tricolore sono impegnati in 36 missioni di guerra.
Le principali sono in Afganistan, Iraq, Libano, Libia, Kosovo, Somalia, nel Mediterraneo. 6.290 soldati italiani sono sui diversi teatri di guerra.
L’impegno più importante è sul fronte interno con l’operazione “Strade sicure”, che impiega 7.000 soldati.

Nelle guerre moderne muoiono più civili che militari. I soldati sono professionisti super addestrati, strumenti costosi e preziosi da preservare, mentre le persone senza divisa diventano obiettivi bellici di primaria importanza in conflitti che giocano la carta del terrore, per piegare la resistenza delle popolazioni che serve sottomettere, per realizzare i propri obiettivi di dominio.
Al riparo delle loro basi, i piloti dei droni, sparano come in un videogioco.

L’Italia è in guerra da decenni ma la chiama pace. È una guerra su più fronti, descritta come intervento umanitario, ma nei fatti è occupazione miliare, bombe, tortura e repressione.
Per trarci in inganno trasformano la guerra in filantropia planetaria, le bombe mezzi di soccorso.

Gli stessi militari delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CPR, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa, sono nel Mediterraneo e sulle frontiere fatte di nulla, che imprigionano uomini, donne e bambini.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia.
Lo Stato italiano nel 2018 ha destinato 21.183 milioni di euro alle spese militari. Nel 2019 questa spesa è destinata ad aumentare.

In Siria, in Iraq, in Afganistan, in Libia si combatte con armi che spesso sono costruite a due passi dalle nostre case.
Nell’ex stabilimento Fiat di Mirafiori Leonardo costruirà droni da combattimento.
Giocattoli costosi che hanno un unico impiego: uccidere.

Torino è uno dei principali centri dell’industria aerospaziale bellica.
L’industria di guerra non va mai in crisi. L’industria bellica italiana fa affari con chiunque.
Il 26 e 27 novembre 2019 si tiene a Torino “Aerospace & defence meeting”, mostra mercato internazionale dell’industria aerospaziale di guerra.
La convention, giunta alla sua settima edizione, ha quest’anno un focus sull’innovazione produttiva, la trasformazione digitale per l’industria aerospaziale 4.0.
Ci saranno 6.500 incontri bilaterali, 900 partecipanti, i rappresentanti di 26 paesi.

Un’occasione per valorizzare le eccellenze del made in Italy nel settore armiero, in testa il colosso Leonardo, con un focus sulle aziende piemontesi leader nel settore: Thales Alenia Space, Avio Aero, UTC Aerospace Systems. Tra gli sponsor, oltre a Leonardo, ci sono la Regione Piemonte e la Camera di Commercio.

L’Aerospace and defence meeting è un evento semi clandestino, chiuso, dove si giocano partite mortali per milioni di persone in ogni dove.
La rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.

Possiamo gettare un granello di sabbia per incepparne il meccanismo, per impedire che il business di morte celebri i suoi riti nell’indifferenza dei più.

Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.

Dal 16 al 27 novembre, dieci giorni di informazione e lotta contro i mercanti di morte!

Sabato 16 novembre corteo antimilitarista da piazza Castello

Assemblea Antimilitarista
antimilitarista.to@gmail.com
www.anarresinfo.noblogs.org

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Grecia. L’autogestione non si arresta nonostante sgomberi e repressione…

Il 16 ottobre la polizia, dopo una lunga pausa, ha ripreso l’offensiva verso le strutture autogestite di Exarchia ad Atena.
Nella stessa giornata sono stati sgomberati due squat, che erano ospitavano decine di migranti e rifugiati senza tetto né documenti. Nel mirino sono finiti “l’Hotel Oniro” e il “Fantasma” che si trova all’incrocio tra le vie Eressiou e Themistokleus, a fianco del K-Vox.

Lo scorso sabato l’occupazione del consolato turco e il blocco del terminal della Turkish airlines a Salonicco ha innescato una durissima repressione poliziesca. I compagni che avevano esposto uno striscione di solidarietà con il Rojava dal balcone del consolato sono stati pestati duramente dai militari turchi e poi consegnati alla polizia greca, che li ha nuovamente picchiati, privati di acqua, cibo e sonno per 24 ore. Le accuse nei loro confronti, nonostante il carattere poco più che simbolico del’azione, sono gravissime.

Le politiche repressione delle lotte sociali e politiche del governo di centro destra sono cominciate il 26 agosto.
Quel giorno ad Atene i blindati della polizia hanno invaso e occupato il quartiere di Exarchia. Siamo nel centro della città, dove gli anarchici e i movimenti di lotta sono molto radicati. In questa zona, i molti edifici occupati sono nodi vitali delle comunità. Luoghi un tempo abbandonati, trasformati in abitazioni, mense, ambulatori sanitari autogestiti, ma anche sedi politiche, librerie, spazi aperti alla solidarietà.

La polizia aveva sgomberato 4 spazi occupati ed ha arrestato 143 persone di cui 140 migranti. Persone che avevano trovato ospitalità in due progetti occupativi, escluse dai servizi sociali e sanitari statali per le politiche devastanti dei governi che si sono succeduti. Persone che sono state deportate in campi di detenzione per migranti fuori città. Con questa operazione repressiva, a lungo preparata e accompagnata da una generale restrizione delle libertà, il governo greco ha attaccato le forme di autorganizzazione della società, il movimento delle occupazioni e il movimento anarchico, per avere mano libera nell’attuazione di nuove politiche di predazione e saccheggio del territorio e di chi ci vive.
Da tempo Exarchia è nel mirino della speculazione, che mira ad attuare riqualificazioni escludenti, che obblighino i poveri e gli immigrati a spostarsi verso l’immensa periferia urbana, dove i fascisti svolgono il ruolo di forze di complemento della polizia.
Dopo gli sgomberi le strade di un quartiere, dove la polizia non osava entrare, sono rimaste a lungo militarizzate. Continue perquisizioni a persone, aggressioni violente e attacchi deliberati della polizia nei locali e spazi autogestiti per provocare e intimidire le compagne e i compagni, per spaventare la popolazione locale.

La reazione dei movimenti è stata significativa con numerose manifestazioni ad Atene e nel resto della Grecia e con una serie di nuove occupazioni, alcune solo simboliche, altre di autentica riappropriazione di spazi di autogestione.

In ogni dove ci sono state manifestazioni ed azioni solidali di piazza con chi oggi in Grecia continua a sperimentare forme alternative di socialità, basate sull’uguaglianza e la solidarietà, e, nel contempo, deve resistere alla repressione.

L’info di radio Blackout ne ha parlato con Simone.

Ascolta la diretta:

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Rojava. Contro tutti gli stati, una solidarietà senza confini

Dal 9 ottobre, dopo aver ricevuto il via libera dal presidente statunitense Trump, lo Stato turco ha dato il via all’invasione del Rojava e intrapreso una nuova guerra contro la Federazione della Siria del Nord con bombardamenti indiscriminati e con l’attacco di forze di terra.
Per il governo turco è necessario annientare un pericoloso esempio di resistenza e di sperimentazione di libertà nella regione, basato su comunità che hanno deciso di abbracciare una rivoluzione confederale, femminista ed ecologista.

Bombardamenti di città, ospedali, acquedotti uccidono, mutilano, obbligano alla fuga centinaia di migliaia di persone. In quest’area ci sono città e villaggi cruciali per la sperimentazione sociale in atto nella regione. In questa zona sorge anche Kobanê, che fu liberata dall’assedio dello stato islamico nel gennaio 2015 grazie alla resistenza della popolazione, delle milizie YPG e YPJ, e alla solidarietà internazionale.

Una nuova guerra di espansione serve a Erdoğan, il presidente turco, per mantenere un consenso che mostra le prime vistose crepe. Come due anni fa durante l’invasione di Afrin, tutti i partiti parlamentari tranne l’HDP si schierano a sostegno dell’esercito turco e della nuova campagna militare. Questo permette a Erdoğan e al blocco di potere dell’AKP di ottenere anche il sostegno del principale partito di opposizione, il CHP, creando un blocco patriottico. L’attacco dell’esercito turco e delle milizie jihadiste ha spinto i vertici federali del Rojava a stringere un accordo con il governo di Damasco, ugualmente pericoloso per il confederalismo democratico.
Solo una forte movimento di solidarietà internazionale può sostenere la resistenza, un movimento antimilitarista e antiautoritario può fermare l’offensiva dello stato turco e fermare la guerra. Chiare sono le responsabilità delle potenze che hanno usato la Siria come un campo di battaglia per i loro interessi imperiali dagli: Stati Uniti di Trump alla Russia di Putin, dal regime autoritario di Assad all’ipocrisia dell’Unione Europea. Non ultimo lo stato italiano che che nonostante le dichiarazioni del governo di questi giorni sostiene apertamente la politica militare di Ankara. L’Italia e la Turchia sono entrambe nella NATO, e solo nel 2018 l’Italia ha venduto armi alla Turchia per un valore complessivo di 362,3 milioni di euro.
Negli ultimi tre anni le esportazioni hanno reso all’industria bellica italiana 890 milioni di euro. Si tratta di armi e sistemi d’arma: elicotteri da guerra, razzi, missili e software per la direzione del tiro, pistole, fucili e munizioni. Quest’anno, secondo i dati Istat le consegne effettive della categoria “armi e munizioni” hanno raggiunto un valore record. Cifra mai raggiunta (124 milioni di euro) anche per “aeromobili, veicoli spaziali e relativi dispositivi”.
Un buon business un business mortale.
Non solo. L’Italia mantiene una missione militare a supporto dell’esercito turco, proprio al confine tra Siria e Turchia con circa 130 soldati e una batteria antimissile.

Il 26 e 27 novembre 2019 si tiene a Torino “Aerospace & defence meeting”, mostra mercato internazionale dell’industria aerospaziale di guerra.
La convention, giunta alla sua settima edizione, ha quest’anno un focus sull’innovazione produttiva, la trasformazione digitale per l’industria aerospaziale 4.0.
Un’occasione per valorizzare le eccellenze del made in Italy nel settore armiero, in testa il colosso Leonardo, con un focus sulle aziende piemontesi leader nel settore: Thales Alenia Space, Avio Aero, UTC Aerospace Systems.

Nelle foto dei meeting passati si vedono alveari di uffici, dove persone eleganti vendono e comprano i giocattoli, che distruggono intere città, massacrano civili, avvelenano terre e fiumi. Giocattoli di guerra. Guerre combattute con armi costruite a due passi dalle nostre case.
Torino è uno dei principali centri dell’industria aerospaziale bellica.

L’Aerospace and defence meeting è un evento semi clandestino, chiuso, dove si giocano partite mortali per milioni di persone in ogni dove. Possiamo gettare un granello di sabbia per incepparne il meccanismo, per impedire che il business di morte celebri i suoi riti nell’indifferenza dei più.

Fermare i massacri in Rojava e l’invasione dipende anche da noi. Le fabbriche d’armi sono nelle nostre città, a due passi dalle nostre case. La rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.

Sempre a fianco di chi lotta e resiste ai bombardamenti, ‬agli incendi, ‬alle torture dell’esercito turco e delle milizie dello Stato Islamico, ‬.
Solidarietà alla resistenza in Rojava, solidarietà a coloro che hanno combattuto e combattono il fanatismo religioso e tutte le forme di autoritarismo!‬‬‬‬‬

Sempre con chi lotta per la libertà e l’uguaglianza, contro tutti gli stati

(questo volantino è stato distribuito al presidio per il Rojava della Federazione Anarchica Torinese a Palazzo nuovo del 16 ottobre)

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Il totem della vergogna

“Nuovamente imbrattato il totem della pace alla Pellerina”. Questo il titolo di Torino oggi, un quotidiano on line. Gli fanno eco La Stampa, Cronacaqui ed altre testate.
Sul monumento firmato dallo scultore Molinari è riapparsa la scritta “Nessuna pace per chi fa guerra” cancellata dal gruppo degli ecovolontari rivaltesi, che hanno rivendicato il loro intervento di decoro urbano appendendo al basamento del totem un grosso striscione di plastica con scritto “grazie a chi decide di non sporcare”.
Un altro striscione “L’antimilitarismo non si cancella! Siete complici della guerra” è invece apparso al recapito degli ecovolontari rivaltesi.
Silvio Magliano, capogruppo dei Moderati al comune di Torino, e Lorenzo Ciravegna, del comitato Torino BCPS, uno delle tante sigle ombra della destra subalpina, si sono affrettati a invocare l’installazione di telecamere, a tuonare contro i vandali, a solidarizzare con gli ecocensori a loro avviso “minacciati” dallo striscione. Un’esponente del gruppo ha peraltro dichiarato al quotidiano La Stampa “di non ritenere necessario” sporgere denuncia e di considerare lo striscione “una risposta” alla cancellazione delle scritte.
Sin qui la cronaca.

Questa piccola vicenda ci racconta molto del sapore agro dei tempi che siamo forzati a vivere.

Il Totem della Pace è stato innalzato in diverse altre città: la vela è immaginata come simbolo di unione tra le genti del Mediterraneo. Alle spalle una fondazione di anime belle, foraggiate con soldi pubblici, capeggiata dall’architetto Capasso. Negli altri totem la vela è rossa. A Torino la vela è tricolore. Infatti è stata realizzata in occasione del 150 anni dell’unità d’Italia. Una vela patriottica: roba per scolaresche in gita e degna della memoria mutilata del nostro paese. Nel 2011, quando venne inaugurata, era in corso una feroce guerra per il controllo della Libia, cui le le forze armate tricolori erano in prima fila. Per la tragica ironia del numeri, il 2011 era anche il centesimo anniversario della guerra tra il Regno d’Italia e l’impero Ottomano per il controllo della Libia.
Il tricolore sventola sul Mediterraneo, dove i pattugliatori italiani vanno a caccia di gente in fuga dalle guerre, dalla desertificazione, dalle terre depredate e saccheggiate dai colonialisti di ieri e di oggi.
Il tricolore è stato innalzato alla Maddalena di Chiomonte dopo lo sgombero della Libera Repubblica dei No Tav, nel luglio di quello stesso anno.
Il tricolore sventolava sui campi di concentramento italiani sull’isola di Rab, nei campi di sterminio in Libia, in testa alle truppe che bruciavano con il gas la popolazione etiope, sulla carlinga degli aerei Fiat che bombardavano la popolazione nel 1937 in Spagna, tra i militari della Folgore che torturavano e stupravano in Somalia…
Il tricolore sventola sui campi di battaglia e nelle prigioni. Il tricolore è il simbolo delle frontiere chiuse e delle missioni di guerra del Belpaese.
Il Totem della Pace parla la neolingua di Orwell, quando la pace è guerra e la guerra è pace.
La stessa neolingua usata nelle operazioni militari italiane travestite di interventi umanitari e di pace: dall’Iraq all’Afganistan, dalla Somalia al Libano.
La scritta “Nessuna pace per chi fa guerra” mette a nudo l’ipocrisia di chi innalza il tricolore sui cimiteri di guerra. Ed oggi il Mediterraneo è un enorme cimitero di guerra. La guerra ai migranti e ai profughi. Una guerra non dichiarata che negli ultimi anni ha fatto almeno 19.000 morti.

Chi cancella le scritte si allinea alla logica del decoro, con la quale in questi anni sono state giustificate decine di operazioni di restyling urbano, miranti a cacciare dalla città i poveri, i senza tetto.
Se si cancellassero tutti i monumenti militaristi, la nostra città sarebbe meno decorosa ma sicuramente più libera e più giusta.

Nessuna pace per chi fa guerra!

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Rojava. Imminente rischio di invasione turca

Ieri la Casa Bianca ha diffuso un comunicato sull’accordo raggiunto con la Turchia, per l’istituzione di una “fascia di sicurezza” lungo il confine Nord della Siria e ad est dell’Eufrate.
Trump ha annunciato il ritiro delle truppe statunitensi dal Nord della Siria. Di fatto un via libera alla Turchia, che non ha mai fatto mistero delle proprie mire espansionistiche nelle zone controllate dalle milizie YPG e JPG a difesa della rivoluzione confederale, femminista ed ecologista, cominciata nel luglio del 2012.
Il piano è chiaro: ripetere l’operazione che due anni fa ha condotto all’occupazione di Afrin, dopo aver ottenuto il via libera dalla Russia, la potenza egemone in quel cantone del Rojava. Ad Afrin, dopo l’invasione, è in atto una occupazione militare durissima. Pulizia etnica e reinsediamento di jhaidisti, nei territori, che proprio le milizie del Rojava avevano liberato dall’Isis.
L’annessione alla Turchia di Afrin è ormai un dato di fatto, mentre si allungano le fila della diaspora curda.
Nelle città del Rojava confederale Erdogan intende dispiegare tutte le sue armi, per poi fare il via alla colata di cemento con la quale da quasi vent’anni si garantisce una vasta rete clientelare.
L’accordo tra Erdogan e Trump prevede che i prigionieri di Daesh vengano consegnati alle autorità turche: in questo modo migliaia di miliziani dello Stato Islamico potrebbero riacquistare la libertà e riorganizzarsi. Il cerchio si chiude: la Turchia in questi anni ha aiutato economicamente e sostenuto sul campo di battaglia le varie formazioni salafite in Siria.
Una nuova guerra di espansione serve al raiss turco per mantenere un consenso che mostra le prime vistose crepe. L’elezione di un suo oppositore alla guida di Istanbul, la principale metropoli turca, due volte ribadita dalle urne, è una grossa spina nel fianco del padre e padrone della Turchia.

Ieri sera c’è stato un bombardamento aereo turco al confine tra Iraq e Siria, nella zona di Semalka, a un’ora di distanza dal passaggio di un convoglio di rifornimenti e armi della Coalizione diretto a Qasmishlo e quindi nel territorio controllato dalle SDF.
Ci sono informazioni discordanti rispetto alla possibile chiusura dello spazio aereo del Nord Est della Siria nei confronti della Turchia da parte degli Stati Uniti.
Il raiss di Damasco non si pronuncia, ma è facile immaginare che il prezzo per un suo intervento, sarebbbe lo stesso chiesto e non ottenuto dai curdi prima dell’invasione di Afrin. Una variabile importante è però il fatto che il via libera ad Afrin venne concesso alla Turchia dal potente alleato russo, mentre ora il Grande Gioco vede una diversa disposizione delle pedine. Non per caso l’Iran ha già condannato l’operazione militare turca.
Negli Stati Uniti scoppia il caos tanto nel partito democratico quanto in quello repubblicano con molti esponenti della politica USA che contestano la mossa di Trump sulla Siria.

L’info di Blackout ne ha parlato con Paolo Pachino, già volontario in Rojava per due anni.
Contro di lui ed altri due miliziani torinesi, la Procura ha richiesto la sorveglianza speciale. Il prossimo 15 ottobre ci sarà udienza e presidio al tribunale di Torino.

Ascolta la diretta:

 

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Egidio. Morto in carcere a 82 anni per “solidarietà”

Egidio aveva 82 anni. É morto lo scorso 6 settembre. É stato trasportato in terapia intensiva quando ormai era allo stremo. Lo scorso 18 dicembre è stato rinchiuso in carcere nonostante l’età e il tumore ai polmoni.
In carcere le sue condizioni sono peggiorate in fretta. In infermeria c’era una sola bombola ad ossigeno: i pazienti dovevano dividersela.
Non sapremo mai se Egidio fosse al corrente di commettere un reato. Aiutare una persona ad entrare in Italia, per lui, emigrato in Argentina a 17 anni e operaio in giro per il mondo per decenni, doveva essere una cosa normale.
Egidio aveva alle spalle una vita di duro lavoro in giro per i deserti a saldare tubi per la Snam e per la Saipem. Rimasto senza casa viveva in una roulotte nel giardino di una casa occupata a Parma, legando benissimo con gli altri abitanti e con il vicinato, al quale offriva i prodotti dell’orto e del giardino che curava come fossero figli.
Aveva appena ottenuto una casa popolare quando è stato arrestato e condotto in carcere per una condanna divenuta definitiva senza che lui neppure sapesse del procedimento a suo carico. L’avvocato di ufficio non aveva fatto ricorso né aveva cercato di rintracciarlo. La parcella gliela pagava lo stato e tanto gli bastava.
Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è considerato un reato grave, ostativo a misure alternative al carcere. Hanno rinchiuso e privato della pensione, un uomo colpevole di solidarietà.
Per lo stato che lo ha condannato una nullità, che si poteva sacrificare senza battere ciglio.
Purtroppo l’accoglimento della richiesta di domiciliari, ottenuta grazie ad un avvocat* di movimento è arrivata tardi.

La sua storia non resterà nell’oblio, che avvolge le vite degli anziani poveri, perché Egidio aveva compagni che lo hanno sostenuto e ne hanno narrato la storia.

L’info di Blackout ne ha parlato con Katia, attivista di Diritti in casa, attiva da molti anni nel movimento delle occupazioni a Parma.

Ascolta la sua testimonianza:

 

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Erdogan minaccia il Rojava

Nuova minaccia del governo turco al Rojava. Erdogan, non pago dell’invasione di Afrin e della zona cuscinetto di 5 chilometri concordata con gli Stati Uniti, aspira ad annettere un’area di 30 chilometri lungo l’intero confine tra la Turchia e la Siria del Nord. La zona è controllata militarmente dalle milizie del confederalismo democratico siriano, che difendono la rivoluzione in atto nell’area.
Per ora il presidente turco si limita alle minacce, ma è probabile che, se non otterrà nulla, se non un silenzio assenso, potrebbe sferrare l’attacco a fine mese, per annettere il Rojava e fare una pulizia etnica simile a quella attuata ad Afrin, dove si sono insediati i combattenti dell’Isis sconfitti sul campo dalle JPG e dalle YPG. Lo schema è quello adottato nelle zone curdofone della stessa Turchia, dove, dopo i bombardamenti e l’occupazione militare, i nuovi insediamenti sono abitati da immigrati turchi o arabi sunniti, fedeli al Sultano di Ankara. Erdogan punta tutto su quest’operazione, dopo la secca perdita di consensi, che ha portato un candidato laico sulla poltrona di sindaco di Istanbul.
Molte sono le varianti. In particolare Erdogan dovrà eludere la resistenza dell’alleato statunitense, i cui interessi collidono con quelli turchi.
Va da se che in Rojava è in ballo una rivoluzione e la sopravvivenza stessa di chi la sta costruendo. La partita finale si giocherà sul terreno, dove non basterà la determinazione, se le milizie del Rojava non avranno copertura aerea.

Il 6 e 7 settembre ci sono state varie iniziative di sostegno alla rivoluzione confederale in Siria in diverse località europee e in Italia.

L’Info di Blackout ha fatto il punto con Paolo Pachino, già volontario in Siria del Nord per due anni.
Per lui ed altri due miliziani torinesi la Procura ha chiesto la sorveglianza speciale. Il pronunciamento è previsto per il 15 ottobre.

Ascolta la diretta

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Torino. Free(k) Pride!

La stagione Free(k) Pride si è conclusa con una giornata dirompente di lotta frocia contro ogni imposizione e vincolo. Le strade della città si sono riempite dei corpi delle soggettività non conformi e non eteronormate, che con forza e leggerezza hanno messo in piazza la propria “mostruosa favolosità”, contro la marginalizzazione sociale, la violenza dell’istituzione familiare, la medicalizzazione e la patologizzazione dei corpi trans e intersex, le frontiere tra gli Stati e i confini tra i generi, il pinkwashing istituzionale della sindaca a 5 stelle. Un approccio intersezionale e intransigente, capace di scavalcare le barriere morali, sociali ed economiche che segnano la nostra quotidianità.
Due mesi di incontri, assemblee pubbliche e momenti di confronto hanno segnato un percorso, che riprendendo le fila del Nessun Norma dello scorso anno, è riuscito a creare spazi mostruosamente liberi in città.
Abbiamo cominciato con lo spettacolo all’università del 18 giugno, senza amplificazione e senza luce, ma con la forza dirompente di un’urgenza incontenibile, quella dei corpi e delle soggettività non conformi, quella dei corpi e delle soggettività che rifiutano ruoli imposti e confini tra i generi, quella di corpi e soggettività che vogliono smontare il dispositivo di genere, verso l’avventura del molteplice. Quest’urgenza ha segnato tutte le iniziative messe in campo dalla rete sino al corteo del 13 luglio.
Il 25 giugno l’assemblea contro la (sacra) famiglia sul sagrato della chiesa di via Santa Giulia, ha innervosito il prete, spingendolo a comiche intemperanze, perché i corpi negati e piegati dalla violenza della religione sfidavano l’ordine patriarcale e tutti quelli che lo vogliono conservare/restaurare.
Il 29 giugno al presidio al CPR i confini che dividono i sommersi dai salvati, sono divenuti tangibili, nelle grida di libertà e, fors’anche, di reciproco riconoscimento ai due lati di un muro chiuso da filo spinato e difeso da uomini in armi.
Il due luglio l’assemblea in piazza Castello, di fronte alla Regione Piemonte, ha raccolto le ragioni e le testimonianze delle persone intersex che vengono mutilate sin dall’infanzia, per adattarle ad uno dei due generi. Le persone trans hanno raccontato la loro lotta per essere riconosciute senza dover sottostare a protocolli medici, che patologizzano le loro scelte e le incanalano secondo una logica binaria.
Il sei luglio ad Asti si è svolto il primo Pride della città, oggi guidata dalla destra, che, con classica operazione di pink washing, ha appoggiato e partecipato al Pride, dove il sindaco è stato contestato dai compagn* dello spezzone indecoroso, scoppiettante, mostruoso. In testa Vulvatrix, il mostro che acchiappa omofobi e razzisti.

Le piazze attraversate dal Free(k) Pride di sabato 13 luglio sono state segnate dall’urgenza di una lotta che non si lascia inscatolare nelle gabbie istituzionali. Lotta intersezionale transfemminista e queer, forte della consapevolezza che la partita è e sarà durissima.
Il primo Pride, nel giugno del 1969 a New York è stato un riot. Da Stonewall a Torino, si intrecciano i fili glitterati di una scommessa in cui si gioca una partita di libertà che riguarda tutt*
Non un tacco indietro!

Di seguito il volantino distribuito al Free(k) Pride da* compagn* della FAT

Identità erranti
Liber* da stato frontiere polizia

Un Pride indecoroso, libero, mostruoso attraversa le strade di Torino, nel segno della rivolta frocia, della liberazione dai confini tra i corpi e tra gli Stati, del rifiuto del pinkwashing istituzionale. Un Pride che trova il suo orgoglio nella lotta contro ogni forma di oppressione e di sfruttamento. Un Pride che fugge la norma eteropatriarcale e non si piega alla legalizzazione delle proprie identità costitutivamente ed orgogliosamente erranti, fuori posto, fuorilegge. Un Pride che è lo specchio dei tanti percorsi di autonomia dai generi.
Sono passati 50 anni da Stonewall, dalla rivolta degli ultimi, dei corpi de-generi, poveri, razializzati. Sylvia Ribera, Marsha P. Johnson e tant* altr* scelsero di scendere in strada, di disobbedire alle leggi che imponevano la normalizzazione forzata. Si scontrarono con il braccio armato dello Stato che voleva piegarl* a suon di botte, manette e umiliazioni. Decisero di diventare orgogliosamente visibili.
50 anni dopo lottiamo ogni giorno contro le frontiere tra i corpi, contro la norma eterosessuale, contro la logica binaria che ci inchioda in ruoli definiti e rigidi, negando la libertà dei mille percorsi individuali, delle mille strade che si intrecciano, fuori dai reticoli istituzionali.
Vogliamo spezzare tutte le gabbie, tutte le frontiere, materiali e simboliche, che rendono arduo per ciascuno trovare l’agio di decidere come e dove vivere.

Le frontiere sono ovunque.
Le frontiere sono linee fatte di nulla su una mappa che uomini armati in divisa rendono vere.
Le frontiere dividono e uccidono.
Nel Mediterraneo e in montagna. Nei ghetti dei raccoglitori di frutta e pomodori, nei cantieri dove la sicurezza è un lusso. Nel cuore della nostra città dove un muro separa chi ha i documenti e chi no. Oltre quel muro, nel CPR, senza che nessuno se ne curasse, a 32 anni è morto Faisal.
Le frontiere sono in mezzo a noi. Sono le leggi sul decoro che cacciano i poveri dai luoghi pubblici, sono le leggi sulla proprietà che negano una casa a chi non ce l’ha.
Sono le frontiere tra i sessi, che piegano i corpi e le soggettività erranti alle regole della famiglia, nucleo “etico” che ingabbia le relazioni, fissa i ruoli, nega la possibilità di percorsi individuali fuori dalla norma patriarcale, statale, religiosa.

Nella nostra città Appendino sgombera le baraccopoli rom e i posti occupati, cementifica la città, promuove riqualificazioni escludenti, si congratula con la polizia che arresta gli anarchici… sfila in testa al Pride e benedice le famiglie arcobaleno, in una kermesse ormai ridotta a business, drenaggio di voti, elogio della polizia in versione arcobaleno.
La retorica della “cittadinanza” partecipativa sceglie chi includere e chi escludere, nel gioco feroce delle poltrone, del potere, delle alleanze.

Noi non ci stiamo
Libertà, uguaglianza, fraternità. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo, hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza.
Questi principi tengono saldamente fuori tanta parte dell’umanità. Poveri, donne, omosessuali, transessuali, bambini, stranieri erano/sono esclusi dall’accesso a questi diritti. La loro universalità, formalmente neutra, è modellata sul maschio adulto, benestante, bianco, eterosessuale. Il resto è margine. Chi non è pienamente umano non può essere “cittadino”, soggetto di diritto.
Chi non è pienamente umano non può aspirare alle libertà degli uomini.
Una libertà regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Per chi ne è escluso si tratta di privilegi, per chi vi è inscritto diviene una gabbia normativa.
Come il matrimonio. Un legame sancito dallo Stato (e dalla chiesa) che fissano le regole e i limiti.
La strada del movimento lgbtqi+ è stata ed è ancora in netta salita. Fascisti e preti continuano le loro crociate per escludere dall’umanità una sua parte. Le discriminazioni, la violenza statale e culturale sono molto forti.
Chi vorrebbe le stesse possibilità degli eterosessuali – adozioni, pensione di reversibilità, diritto alla cura del partner – deve adeguarsi ad un modello rigido di relazione costruita sulla coppia e sui loro figli, alla legalizzazione dei sentimenti, delle passioni, della tenerezza.
Chi sceglie di starne fuori, di fare altre strade, non può avere questi diritti anche se eterosessuale.
Se la normalizzazione delle nostre identità erranti è il prezzo per accedere ad alcuni diritti che si ottengono solo con il matrimonio, un legame sancito e regolato dallo Stato, allora questo prezzo non siamo dispost* a pagarlo.
Vogliamo continuare ad attraversare le nostre vite con la forza e la leggerezza di chi si scioglie da vincoli e lacci.
Senza frontiere, che separino i sommersi dai salvati, i cittadini e gli stranieri.
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. La solidarietà ed il mutuo appoggio si possono praticare attraverso relazioni libere, plurali, egualitarie.
Una scommessa che spezza l’ordine. Morale, sociale, economico.

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Faisal, “Sahid” e gli altr*

La notizia della morte di un prigioniero nel CPR di Torino è arrivata come un pugno nello stomaco.
Lo hanno trovato all’alba dell’8 luglio all’“Ospedaletto” che non è una struttura sanitaria, ma una sezione di isolamento con celle singole e un pollaio con le sbarre dove fare l’aria da soli.
Siamo tornati di colpo alla primavera del 2008.
Undici anni fa le casette del CPR erano nuove, appena consegnate alla Croce Rossa militare dalle ditte che avevano effettuato i lavori di raddoppio e ristrutturazione del CPR inaugurato nell’estate del 1999 in un’area militare dismessa. Nei primi dieci anni i prigionieri erano stati costretti in container bollenti d’estate e gelidi d’inverno. Loculi per gente viva. Le casette in muratura vennero presentate come un miglioramento. Una settimana dopo un tunisino di 32 anni, Fathi, morì in una di quelle casette nuove nuove. Stava male dal mattino precedente, ma nessuno ascoltò i suoi compagni che chiedevano inutilmente che venisse soccorso. Dichiararono: “urlavamo come cani al canile, ma nessuno si è mosso”. La mattina successiva era morto.
La notizia finì sulla prima pagina dell’edizione torinese di Repubblica. Le proteste dei detenuti, le tante iniziative di lotta di quei mesi, quando un altro ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, estese la detenzione nelle prigioni per migranti a sei mesi, sono parte della storia della lunga lotta perché questi lager vengano definitivamente chiusi. Lo strascico di arresti, processi e condanne non ha mai fermato la lotta.
Specie quella dei prigionieri che hanno più volte fatto a pezzi e bruciato le casette circondate da recinzioni e filo spinato di Corso Brunelleschi.

In questo luglio c’è morto Faisal Hossein. Pare che fosse in isolamento da mesi. Nessuno si è curato di lui. Un vuoto a perdere. Come tutti al di là di quelle mura, dove la vernice copre le scritte di libertà che poi qualcuno verga di nuovo. Una prigione per senza documenti, un posto dove si finisce per un illecito amministrativo, un luogo dove non valgono le regole che tutelano chi ha in tasca un documento che ne certifica il diritto a risiedere in Italia.
Chi finisce al CPR fa fatica persino a nominare un legale. Il CPR è una discarica sociale, dove vengono raccolti i nemici di una guerra non dichiarata ma ferocissima.
L’Ospedaletto è un non luogo, dal nome che allude alla cura ma rimanda agli antichi ospitali per poveri. Un lazzaretto per indesiderabili. Chi protesta, chi non ci sta con la testa, chi è inviso agli altri ci finisce a discrezione dei gestori di questa prigione gestita dalla Gepsa, una multinazionale con base in Francia, specializzata nelle gestione di luoghi di detenzione. Gepsa non ha un indirizzo o una base, foss’anche virtuale in Italia, dove ha in gestione anche altri luoghi di concentramento per migranti. Di certo sappiamo che prende 38,5 euro per ogni recluso nel CPR. Quando ci morì Fathi, nella notte tra il 23 e il 24 maggio 2008, la Croce Rossa ne prendeva quasi il doppio. Basterebbero queste cifre per capire come si viva dietro le recinzioni del CPR di Torino.
Dell’uomo morto al CPR il 7 luglio sappiamo poco, il poco che in queste ore sta filtrando oltre le mura. Forse un senzatetto, male in arnese. Forse il male di vivere gli stringeva la gola. Forse si chiamava Faisal Hossein ed era originario del Bangladesh. Forse.

Un giornalista a caccia di scoop ha inizialmente diffuso la notizia che si chiamasse Sahid e fosse stato posto in isolamento dopo aver protestato per uno stupro subito da altri prigionieri.
La storia è autentica, ma “Sahid”, il cui nome vero non è opportuno divulgare, è ancora vivo, seppellito in un loculo bollente dell’Ospedaletto. La polizia lo ha convinto a non sporgere denuncia.
Se in un altro loculo Faisal non fosse uscito in un sacco nero, della storia di soprusi e connivenze di “Sahid” non sapremmo nulla.

Forse i prigionieri del CPR conoscevano poco Faisal. Forse. Ma non hanno avuto dubbi quando hanno saputo che uno di loro era morto a 32 anni in un buco bollente, in fondo ad una prigione, dove tutti vivono sospesi, perché la condizione migrante ti ruba pezzi di vita, ti mette tra parentesi, in attesa che un colpo di dadi decida se verrai deportato o tornerai a vivere sul filo del rasoio, con l’occhio attento alla pattuglia, mentre campi una vita che comunque non è quella che volevi, in condizioni di continua precarietà, super sfruttamento. Clandestina.
Sin dalle prime ore di lunedì materassi e suppellettili sono stati bruciati.
In serata alle mura del CPR si sono raccolti numerosi solidali. Da dentro si sentivano forti le voci di risposta alle parole di sostegno alla lotta, agli slogan. Libertà, libertà in tante lingue. La polizia ha sparato lacrimogeni dentro al CPR.
Ad un tentativo di blocco dei manifestanti su via Monginevro la polizia ha risposto caricando e distribuendo manganellate.
Il giorno successivo il CPR era più silenzioso, i manifestanti fuori erano molti di più. Poi all’improvviso un uomo con una bandiera improvvisata è salto sul tetto di una delle sezioni. Gridava “aiutatemi!”. Sul lato opposto si è levata una colonna di fumo nero, un odore acre si è sparso per l’aria. Poco dopo altro fumo e altre fiamme.
I manifestanti hanno bloccato la strada e poi hanno fatto un corteo comunicativo per le strade silenti del quartiere prima di tornare per un ultimo saluto al CPR.
Si sono sentite le sirene di un’ambulanza. Forse uscita dall’ingresso di via Mazzarello. Forse.
La polizia è entrata in due sezioni, ancora non sappiamo in quali, distribuendo manganellate ai rivoltosi.
Faisal era uno di loro.
Sapevano che morire a 32 anni in un loculo bollente senza che nessuno se ne accorga è normale solo in un lager.
A questa normalità non intendiamo rassegnarci. Chi tace è complice.

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Torino. Salta il tornello!

In giro per Torino da un mese si susseguono iniziative di informazione e lotta per un trasporto pubblico gratuito per tutt*.
Si salta su un tram, si parla con al gente a bordo, si blocca al volo e si va subito via.
Di seguito il volantino che stiamo distribuendo:

“Niente tornelli, basta controllori
Trasporti pubblici gratuiti per tutti
Ogni giorno chi non può permettersi il lusso di viaggiare in auto spera di pescare per caso la carta giusta, spera nell’arrivo di un bus poco affollato, di trovare un posto a sedere, un angolo per le sporte della spesa, una breve pausa, prima di correre al lavoro, a scuola, a casa, a prendere i figli o ad assistere gli anziani.
Il gioco è truccato e le carte buone sono rare.
Gli autobus e i tram sono sempre più affollati, sporchi, privi di manutenzione.
Ma il peggio è stato, anno dopo anno, il diradarsi dei passaggi alle fermate, il ridursi delle linee, l’aumento del costo dei biglietti.
Tanti non pagano. Non ce la fanno a trovare 1 euro e 70 per una corsa. Paiono pochi ma sono molti per chi vive di lavori precari, malpagati e ha bisogno di soldi per il fitto, la luce, il gas.
Il biglietto di tram, bus e metro sale, aumentano i controlli per stanare i viaggiatori clandestini, quelli che non hanno i soldi per il biglietto, ma si devono spostare per mettere insieme il pranzo con la cena.
I nuovi tornelli che stanno montando sui mezzi lasciano a piedi tanta gente che non ce la fa a campare la vita tra disoccupazione, pensioni da fame, precarietà e lavoro nero.
Appendino fa la guerra ai poveri.
Caccia dal Balon il Barattolo, il mercato della roba vecchia, che per tanti è un’importante, se non l’unica, fonte di reddito.
Ci raccontano che stanno riqualificando le periferie, che i nostri quartieri saranno più belli da vivere. Non ci dicono però che in queste periferie per turisti, studenti, ricchi professionisti, non c’è più posto per chi ci abita ora. Si moltiplicano i bed & breakfast e diminuiscono le case, aumentano i fitti e i prezzi nei negozi. La chiamano riqualificazione, ma ha il sapore amaro dell’occupazione militare, del controllo, dei posti di blocco, delle retate di senza documenti.
Torino si è trasformata da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti. Fanno festa per le gare di tennis che arricchiranno i commercianti del centro, mentre noi aspettiamo stanchi autobus e tram stracolmi. Puntano sui grandi eventi, mentre le scuole cadono a pezzi e noi non abbiamo i soldi per pagare la mensa ai nostri figli e nipoti.
Scommettono sul turismo, mentre noi aspettiamo mesi per una visita medica o un esame.
È la città a 5Stelle, che attua riqualificazioni escludenti, caccia i senza casa, i senza reddito, i senza documenti ai margini della metropoli.
Appendino e i suoi raccontano di voler tutelare l’ambiente, ma si limitano a far cassa tra ztl allargata e zone blu a pagamento dappertutto. Per i tram e i bus non spendono un euro: eppure solo un trasporto realmente pubblico, gratuito ed efficiente, potrebbe scalfire il trasporto privato individuale, incentivare, riducendo il traffico, l’uso della bicicletta. Solo così potrebbe migliorare un pochino l’aria che respiriamo, avvelenata dai tanti impianti nocivi, che si guardano bene dal controllare e chiudere.

Bus e tram devono essere gratuiti per tutti. I soldi ci sono: li hanno i ricchi che vivono sulle spalle dei poveri, i padroni che sfruttano il nostro lavoro.

Riprendiamoci la città, costruiamo esperienze di autogestione, cacciamo padroni e governanti, creiamo assemblee in ogni quartiere.
Con la lotta, il mutuo appoggio e la solidarietà rendiamo gratuiti sin da ora i trasporti pubblici.

Salta il tornello!”

Federazione Anarchica Torinese
Corso Palermo 46 – riunioni ogni giovedì alle 21

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2 giugno dei Senzapatria

Il due giugno la Repubblica festeggia se stessa con parate e cerimonie militari. L’esaltazione delle forze armate, la retorica patriottica, la celebrazione delle bandiera e dei confini sono il sale di una narrazione che pone al centro il nazionalismo, l’identità escludente, su cui si incardina la guerra ai poveri e agli immigrati.

A Torino il rito militare è stato celebrato in piazza Castello. C’erano anche gli antimilitaristi. La polizia in assetto antisommossa ha bloccato l’ingresso in piazza Castello. I senzapatria hanno chiuso un perimetro con fili e scritte contro le frontiere, bloccando per un breve periodo via XX Settembre.
Le frontiere reali, tangibili, ma spesso invisibili ai più, sono divenute concrete per un po’, tanto da innervosire il consueto stuolo di digos, che hanno provato senza successo a sequestrare lo striscione “Morti in mare. Salvini e Toninelli assassini”.
Il presidio si è allargato, facendo pressione con cori e slogan. Sono state diffuse testimonianze sulle sulla violenza delle frontiere.
Il presidio si è trasformato in corteo ed ha raggiunto piazza Castello, dove era appena finita la cerimonia militare. Fumogeni e un tirassegno antimilitarista hanno concluso una giornata di informazione e lotta.

Di seguito il volantino dell’assemblea antimilitarista di Torino:

“Contro tutte le patrie per un mondo senza frontiere

L’Italia è in guerra. Truppe italiane sono in Afganistan, in Iraq, in Val Susa, nel Mediterraneo e nelle strade delle nostre periferie, dove i nemici sono i poveri, gli immigrati, i senza casa, chi si oppone ad un ordine sociale feroce.

L’Italia è in guerra. A pochi passi dalle nostre case si producono e si testano le armi impiegate nelle guerre di ogni dove. Le usano le truppe italiane nelle missioni di “pace” all’estero, le vendono le industrie italiane ai paesi in guerra. Queste armi hanno ucciso milioni di persone, distrutto città e villaggi, avvelenato irrimediabilmente interi territori.

L’Italia è in guerra. In tutto il paese ci sono aeroporti militari, poligoni, centri di controllo satellitare, postazioni di lancio dei droni. Le prove generali dei conflitti di questi anni sono fatte nelle basi che occupano ovunque il territorio.

L’Italia è in guerra. Le frontiere chiuse dell’Europa uccidono uomini, donne e bambini che fuggono guerre, miseria, persecuzioni e dittature.
Si muore in mare, nel deserto, nelle gallerie ferroviarie, sui valichi alpini.

L’Italia è in guerra. Chi promuove guerre in nome dell’umanità paga i macellai di Tripoli e di Ankara perché i profughi vengano respinti e deportati.
I porti italiani sono stati chiusi alle navi delle ONG che salvavano i naufraghi, alla guardia costiera italiana è stato vietato intervenire nelle emergenze in mare. La guardia costiera libica, la cui collusione con i trafficanti è ben nota, ricaccia all’inferno delle prigioni per migranti la gente in viaggio. Nei lager libici stupri, torture, fame, ricatti e omicidi sono orrori quotidiani. I lager sono in Libia, i responsabili sono al governo in Italia e in Europa.
Il ministro dell’Interno sta preparando un nuovo pacchetto “sicurezza”. Chi presta soccorso ai naufraghi, rischia multe salatissime e il ritiro della patente. La gente di mare dovrà scegliere se diventare complice degli assassini di Stato o perdere la barca e il lavoro.

L’Italia è in guerra. Ogni giorno centinaia di persone viaggiano per seguire i fili della propria vita. Tanti provano a passare il confine con la Francia.
Ma non tutti arrivano. Polizia e militari sono essi stessi una frontiera per chi non ha documenti, né mai li avrà. Il pacchetto sicurezza cancellando la protezione umanitaria ha reso clandestine migliaia di persone.
Il confine è una linea sottile sulle mappe. Tra boschi e valichi, tra le acque del Mare di Mezzo, non ci sono frontiere: solo uomini in armi che le rendono vere.
Le frontiere tra i sommersi e i salvati sono ovunque, ben oltre i confini di Stato e le dogane.
Le frontiere sono quasi invisibili per chi ha la fortuna di possedere un documento, di essere bianco, di avere la cittadinanza.
Per i senza carte ogni strada è una frontiera: ogni giorno rischiano di incappare in una pattuglia, di essere rinchiusi nei CPR o deportati a migliaia di chilometri di distanza.
Un terribile gioco dell’oca: se i dadi ti dicono male ritorni da dove sei partito anni prima, bruciando la tua vita per un viaggio che potrebbe durare poche ore, costare molto meno.
La retorica sulla sicurezza alimenta l’identificazione del nemico con il povero, mira a spezzare la solidarietà tra gli oppressi, perché non si alleino contro chi li opprime.

L’Italia è in guerra. Ma in ogni dove, lungo le frontiere serrate d’ Europa, c’è chi ha deciso di non stare a guardare la gente che muore, si perde, dorme in strada, viene cacciata da gendarmi e carabinieri.

Un giorno qualcuno potrebbe chiederci dove eravamo mentre i bambini annegavano. Dove eravamo quando il governo chiudeva i porti? Dove eravamo quando il ministro dell’Interno cancellava i permessi umanitari a donne incinte, ragazzi soli, persone torturate? Dove eravamo quando la furia razzista colpiva per le strade?
Noi vorremmo poter rispondere che eravamo lungo le frontiere che separano, selezionano, uccidono. Mettersi in mezzo è possibile. Dipende da ciascuno di noi.
Se non ora, quando? Se non io, chi per me?

La rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.

Contro tutti gli eserciti, contro tutte le guerre!.
Le frontiere uccidono. Abbattiamole!”

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Torino. Corteo antifascista blocca Forza Nuova

Il 21 maggio Forza Nuova ha provato a sbarcare nella periferia torinese per raccogliere voti, facendo leva sulla guerra tra poveri, ma non c’è riuscita.
Qualche manciata di fascisti è rimasta rintanata nella propria sede in via Matilde Serao mentre un corteo di centinaia di antifascisti e antifasciste raggiungeva l’area della Spina 3 blindatissima dalla polizia e presidiava, bloccando corso Principe Oddone per oltre un’ora. Quando è stato chiaro che i fascisti non sarebbero usciti in strada il corteo è ripartito, facendo un lungo giro per Barriera e Aurora. La passeggiata antifascista è terminata ai giardini Alimonda, da tempo sotto i riflettori dei media, della polizia, del prefetto, dell’amministrazione comunale, nel contesto di una campagna repressiva che sta investendo i quartieri popolari di Torino Nord.
Mentre i fascisti per giustificare la magra figura diffondevano un comunicato in cui si definivano “prigionieri politici”, ai giardini Alimonda fuochi d’artificio concludevano festosamente una giornata di informazione e lotta.
Nei nostri quartieri la presenza fascista non è, e mai sarà, ben accetta: l’antifascismo non si delega, si agisce ogni giorno attraverso pratiche di azione diretta.
No alla guerra tra poveri,
No alla guerra ai poveri!

Di seguito il testo del volantino distribuito lungo il tragitto:

No a Forza Nuova!
Azione diretta contro Stato e fascisti!
I fascisti di Forza Nuova vogliono fare una passeggiata elettorale nel quartiere Aurora, che è stato a lungo sotto i riflettori dei media per la pesante militarizzazione imposta ai suoi abitanti. L’amministrazione comunale pentastellata ha deciso di regolare i conti con gli anarchici e di dare garanzie agli investitori che si stanno riversando su una periferia troppo vicina al centro, da tempo attraversata da riqualificazioni escludenti, sfratti, operazioni di polizia ai giardinetti e nelle fabbriche abbandonate, dove vengono cacciati senza tetto e senza documenti.
Ultimo atto, la ciliegina sulla torta, potrebbe essere lo sgombero del Balon dall’area dei Molassi e di San Pietro in Vincoli.
La ciambella non è riuscita con il buco e la resistenza di abitanti, poveri, anarchici va avanti aprendo crepe nel consenso alle politiche disciplinari del governo nazionale come di quello locale.
Forza Nuova è uno dei referenti delle destre istituzionali al governo.
L’estrema destra svolge oggi il ruolo che i fascisti avevano sin dal 1919, quando vennero fondati i fasci di combattimento. I fascisti sono la mano armata informale del governo: fanno il lavoro sporco che i gialloverdi non possono ancora permettersi di affidare direttamente alla polizia.
Usano la violenza contro gli immigrati, i poveri, i rom, i senza casa, tutti trattati da nemici in una guerra senza esclusione di colpi. I “nemici interni”, le non persone, colpevoli di esistere, di essere vive, di avere diritto ad una casa popolare, finiscono nel loro mirino. La donna rom con la bambina in braccio che è stata minacciata di stupro mentre entrava in una casa dopo anni di baracca, è l’emblema di un paese in cui Auschwitz è dietro l’angolo.
Forza Nuova non scende in piazza contro la mafia, ma solo contro quella nigeriana, perché nel mirino ci sono gli immigrati: nella retorica fascista gli immigrati sono tutti delinquenti. Come gli italiani che emigravano in tutto il mondo sino a pochi decenni fa.

I fascisti sono la mano armata dei padroni, che ogni giorno ci rubano la vita per farsi sempre più ricchi. I fascisti attizzano il fuoco della guerra tra poveri, tra italiani poveri ed immigrati poveri, tra senza casa, tra precari, per impedire che ci uniamo per liberarci dallo sfruttamento, per prenderci le case, per cacciare chi ci opprime e chi ci sfrutta.
I fascisti, sotto altra veste, sono già al potere. In questi giorni il governo sta preparando un nuovo pacchetto “sicurezza”. Nel mirino chi presta soccorso ai naufraghi, impedendo che siano ricacciati nei lager libici, dove stupri, torture, fame, ricatti e omicidi sono terribilmente normali. I lager sono in Libia, i responsabili sono al governo in Italia e in Europa.
Nel mirino del governo c’è anche chi manifesta: basterà accendere un fumogeno o sedersi in terra durante una protesta per rischiare la galera.
Nel primo decreto migliaia di persone che vivevano e lavoravano nel nostro paese sono state cacciate dai centri di accoglienza, perché è stata cancellata la protezione umanitaria. Il governo ha trasformato in clandestini anche i neonati. Hanno stanziato fondi per aumentare i poliziotti per le strade, per pagare i voli di deportazione, sperando che la gente cada nella trappola di non saper più riconoscere il nemico di classe. Per i padroni siamo tutti uguali, perché gli interessa il colore dei soldi non quello della pelle.
Chi occupa una casa per dare un tetto a se e ai propri figli rischia lunghe pene detentive. I lavoratori che fanno un blocco per obbligare chi li sfrutta e deruba ogni giorno a mollare più soldi, più libertà, meno ore di lavoro, meno controlli elettronici non avranno una semplice multa ma la detenzione sino a sei anni.
Un incubo totalitario. Se non ci opponiamo ora, il domani potrebbe essere più scuro di un oggi già nero. I fascisti di Forza Nuova sono solo un tassello, feroce, razzista, omofobo, misogino di un puzzle i cui pezzi principali sono composti nelle aule del parlamento.

Nel mondo che vogliamo gli unici stranieri sono fascisti, polizia, governanti.
Via i fascisti dai nostri quartieri!

Federazione Anarchica Torinese
corso Palermo 46 – riunioni ogni giovedì alle 21

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Primo Maggio a Torino. A bocce ferme

A volte ci vuole un po’ di tempo tra gli eventi e la loro narrazione.
Da alcuni anni il Primo Maggio torinese ha smesso di essere una scatola con tanti pezzi diversi, che si disponevano secondo un ordine rituale, immutabile nel tempo.
In testa Cgil, Cisl, Uil, gli organizzatori ufficiali della giornata, preceduti solo dalla banda municipale e dal parterre istituzionale, che, al di là delle congiunture elettorali, escludeva i fascisti. Poi le associazioni, seguite dai settori più radicali del sindacalismo di base, dai centri sociali, dagli spezzoni dell’anarchismo sociale e infine dai partiti della “sinistra” istituzionale, prima il PD e poi tutti i pezzi della lunga diaspora post-comunista. Distanti e separati quelli di Lotta Comunista, che con coreografia da piazza Rossa moscovita, facevano la loro uscita pubblica annuale.
Il Primo Maggio a Torino, diversamente da Milano, dove il bagno di folla è il 25 aprile, è sempre stato un momento di forte partecipazione popolare. A Torino l’insurrezione contro il fascismo, con combattimenti strada per strada, durò giorni: solo il Primo Maggio, con le formazioni partigiane in piazza, si poté dire conclusa.
Il Primo Maggio per i torinesi è stata la festa della Liberazione, momento in cui chi aveva combattuto il fascismo per andare oltre la democrazia borghese, si incontrava e si riconosceva.
Negli ultimi anni le tante piazze torinesi, che si rappresentavano nel corteo del Primo Maggio si sono sempre più divaricate. Non sono mancati gli scontri con i servizi d’ordine del PD e con la polizia, messa a guardia del corteo istituzionale, affinché non vi fossero voci discordanti in piazza.
Poi, buona parte del sindacalismo di base non è più scesa in piazza e il PD, dopo innumeri contestazioni, culminate con il blocco al loro ingresso in piazza San Carlo, si sono riposizionati nella prima parte del corteo.
Nel 2017 la polizia ha fatto cariche molto dure per impedire che post-autonomi e anarchici entrassero troppo presto in piazza.
Solo nel 2018 tutto è filato liscio: il cordone di sicurezza dei 5Stelle davanti ai centri sociali post autonomi ha funzionato: la polizia non è intervenuta.
Quest’anno una campagna elettorale incandescente ha fatto saltare un fragile equilibrio.
La partita sul Tav è stata al centro dell’agone politico per mesi: ancora una volta il PD e, a ruota, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia hanno puntato tutto sulla nuova linea ferroviaria ad alta velocità tra Torino e Lyon. Il Movimento 5Stelle, che sul piano nazionale ha perso terreno tra i movimenti ambientalisti, di difesa del territorio e contro le nocività, sul Tav ha mantenuto un atteggiamento ambiguo, dando comunque il via libera ai bandi per la realizzazione del tunnel di base.
In Piemonte il M5S ha bisogno dei voti No Tav per frenare una caduta pronosticata da mesi dai sondaggisti.
Alcuni consiglieri comunali e regionali a 5 Stelle hanno provato a fare da intercapedine tra lo spezzone No Tav, confluito in quello post-autonomo, e quello del PD, che ha schierato il proprio servizio d’ordine.
I fatti sono noti, prima i picchiatori dell’Idra Service, al servizio del PD hanno assalito i No Tav in piazza Vittorio, poi l’iniziativa è passata alla polizia che ha distribuito con generosità manganellate alle prime file No Tav, che li hanno affrontati senza nessuna protezione o altro strumento di autodifesa.
Poi, ritualmente, piazza San Carlo si è vuotata degli organizzatori e sono entrati tutti gli altri. Vi rimane solo uno sparuto manipolo di Si.Cobas che, dopo, un mini corteo in Barriera, si erano infilati nella parte istituzionale del corteo per azzardare qualche fischio e slogan in piazza San Carlo.
Sul palco lasciato vuoto si sono issati No Tav e post-autonomi.
Nei prossimi mesi sul Tav si giocherà una partita decisiva. Decisiva per l’autonomia di un movimento, che nessun governo è riuscito a piegare, ma che si è fatto irretire dalle seduzioni pentastellate sino a smarrire, almeno in parte, la bussola.
Anche questo Primo Maggio i 5Stelle sono riusciti a recitare la parte del partito di lotta e di governo: un’ambiguità voluta, utile ad una campagna elettorale giocata sul filo di lana.
La Torino a 5Stelle è un Giano bifronte. C’è la sindaca Appendino che si congratula con la polizia per la repressione contro gli anarchici, ci sono i consiglieri comunali pentastellati in quota a centri sociali e sindacati di base, che hanno fatto gli scudi umani di fronte allo spezzone No Tav, vero specchietto per le allodole, l’ultima spiaggia per chi ha bisogno dei voti No Tav, nonostante non abbia fatto nulla per impedire che venissero lanciati i bandi per il tunnel di base, vero avvio dei lavori per la Torino Lyon.
La Torino a 5 Stelle è un Luna Park per turisti, una vetrina di grandi eventi, di buoni affari per commercianti, imprenditori, banche. La Torino a 5 Stelle è anche un parco giochi per polizia e militari tra sgomberi, sfratti, precarietà, sfruttamento, riqualificazioni escludenti e “sicurezza partecipata”.

In testa al corteo, oltre alla sindaca pentastellata in flirt permanente con il presidente dem della Regione Chiamparino, sono sfilati i fascisti di Fratelli d’Italia, tra cui spiccava il picchiatore Ghiglia, i vari candidati del centro-destra alle elezioni regionali ed europee. Per la prima volta dal 1945, i fascisti erano in piazza il Primo Maggio. I fascisti sono e sono stati al governo. Mai però nella piazza antifascista del Primo Maggio. Si è rotto l’ultimo argine.

Gli anarchici, con bandiere rosse e nere e No Tav, quest’anno hanno scelto di puntare su uno spezzone che si è intenzionalmente collocato in coda al corteo. Uno spezzone molto partecipato e comunicativo che ha scelto di sottrarsi ai giochi elettorali con cui PD e 5Stelle hanno provato a disegnare la piazza del Primo Maggio.
Una scelta che ha pagato, ma, a bocce ferme, occorre una riflessione di più ampio respiro.
Abbiamo portato in piazza le lotte che conduciamo ogni giorno nei posti di lavoro dove la precarietà, lo sfruttamento, la nocività del lavoro e dell’ambiente sono sempre più forti. Abbiamo portato in piazza le lotte contro la militarizzazione delle periferie e le frontiere, nella consapevolezza che il Primo Maggio è un giorno di sciopero, di insubordinazione sociale, un’occasione per riunire le nostre tribù intorno al fuoco per fare il punto e ripartire.

Ma non basta. Non più. Occorre raccogliere le forze per costruire un percorso che vada oltre la rituale contrapposizione allo spezzone istituzionale, una pratica sempre più stanca, la cui principale forza è solo nell’attenzione mediatica. Se il nemico marcia alla tua testa, non si può continuare a rincorrerlo per sorpassarlo. E non basta stare lontani.
Oggi i movimenti sociali rappresentano la parte viva e forte del corteo del Primo Maggio, dove in testa sfilano funzionari che hanno fretta di andare a pranzo.
É tempo di andare altrove.

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Controllo, periferie, gentrification. Tutti amano la polizia?

Le statistiche finanziate dal ministero dell’Interno danno in costante aumento la fiducia nei confronti della polizia, e in generale, di tutte le istituzioni pubbliche e private che gestiscono l’ordine pubblico per conto del governo o delle corporation.
Secondo l’Eurispes nel 2018 il 71% della popolazione avrebbe una buona opinione del lavoro della polizia, buona opinione che invece non si estende alle istituzioni politiche, in calo netto in diversi sondaggi, che evidenziano come la maggior parte delle persone ritengano immutabile la situazione sociale in cui sono immersi e ne attribuiscano la responsabilità al governo di turno.
Solo un italiano su 5 ha fiducia nel governo, sempre secondo i dati più recenti forniti dall’Eurispes, che non trovate sul sito del ministero dell’Interno ma hanno ampia eco sui siti legati a militari e polizia.
In altri termini ci sarebbe fiducia nel braccio armato dello Stato ma non nelle istituzioni politiche e, tanto meno in quelle giudiziarie, che ne determinano le regole di ingaggio, l’impiego sui vari territori, il finanziamento, la narrazione.
Lo sa bene l’attuale ministro dell’Interno che in ogni occasione possibile indossa la divisa della Polizia di Stato, contando su un processo identificativo che si innesti su un immaginario consolidato.

Facciamo un passo indietro
Nel dicembre del 2013 per tre giorni Torino venne attraversata da blocchi, cortei spontanei e serrate dei negozianti: volantini tricolori inneggiavano ad una presa del potere dei militari come passaggio ad un governo civile che ne interpretasse le istanze. Gli applausi ai poliziotti, baciati e abbracciati durante cortei selvaggi e blocchi stradali erano il segno di una volontà di rottura “rivoluzionaria”, in cui i vari corpi armati dello Stato si mettessero a disposizione dei cittadini insorti.
Durò poco, la repressione fu minima, la tolleranza notevole. Il blocco sociale che a Torino si rappresentò con forza non ebbe equivalenti nel resto della penisola, dove la “rivoluzione” forcona venne cavalcata solo dall’estrema destra classica, senza assumere il carattere vagamente insurrezionale della tre giorni subalpina.
In Barriera di Milano, il quartiere di Torino dove sono nata e dove ho trascorso buona parte della mia vita, il cuore della rivolta erano i lavoratori autonomi dei mercati, le partite IVA, i tassisti, i giovani italiani disoccupati, i piccoli negozianti schiacciati dalla grande distribuzione. Nei giorni che precedettero la breve avventura Forcona nei bar di Barriera si respirava un’aria strana, a metà tra l’esaltazione e il timore, in bilico tra la voglia di fare il “salto” e l’ansia per i propri affari. Nessuno aveva paura della polizia, delle possibili denunce: erano convinti di essere nel giusto e che i giusti non potessero che stare dalla loro parte. L’illegalità diffusa cui si dedicarono nei tre giorni successivi era giustificata dal diritto/dovere all’insurrezione. Segno che la legittimità delle istituzioni politiche è sempre, anche in questo caso, soggetta al consenso popolare.
Le ragioni sociali di quell’anomalo dicembre vennero evidenziate dalla maggior parte di chi studiò o commentò la vicenda, ma c’era una radice politica che i più preferirono ignorare. Sei mesi prima il movimento 5Stelle aveva sfondato le porte del parlamento con un’armata Brancaleone, nella quale si identificavano tanti di coloro che a dicembre volevano fare la “rivoluzione”. Erano quelli che promettevano di “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno”. Uno dei motivi guida dei Forconi era la consapevolezza di aver votato per cambiare mentre tutto restava come prima.
Tutto finì in nulla e tutti tornarono a casa con la coda tra le gambe. La rivoluzione non è un pranzo di gala e non si fa in tre giorni.

Il nemico interno
Più di cinque anni dopo quell’aggregato sociale ha trovato rappresentanza nell’ibrido giallo-verde al governo.
La militarizzazione sempre più schiacciante dello spazio sociale ne è la caratteristica distintiva. Se la polizia è l’istituzione che attira i maggiori consensi, metterla in campo è un buono spot pubblicitario.
Gli spot funzionano finché la merce vera è l’immaginario che generano: quando le questioni sociali restano sullo sfondo, il meccanismo rischia di rompersi.
Se nel mirino finiscono gli immigrati, i consensi verso il governo aumentano. L’indignazione per i porti chiusi, i morti nel Mediterraneo e sulle rotte alpine è forte tra le classi medie colte, ma non tocca le periferie, dove gli italiani impoveriti vivono a fianco degli immigrati poveri e vorrebbero vederli sparire, nell’illusione che eliminato il “nemico interno”, tornerà l’età dell’oro con welfare, pensioni, sanità, scuole, trasporti di qualità.
Il governo, consapevole della necessità di offrire una risposta alle tensioni sociali che attraversano il paese, ha fatto leva su due proposte che hanno garantito il successo elettorale del Movimento 5Stelle e della Lega alle scorse elezioni politiche: quota 100 e reddito di cittadinanza. Entrambi i provvedimenti rischiano di portare ad un flop, perché il trucco c’è e si vede.
La legge Fornero non è stata abolita. Chi rientra nella quota 100 prenderà una pensione molto più bassa di chi ci andrà a 67 anni, perché il sistema di calcolo della pensione resterà quello fissato dalla legge del governo targato PD. Il reddito di cittadinanza è un’elemosina, elargita a chi la “merita”, accettando di lavorare gratis, di fare qualsiasi lavoro ovunque. Un meccanismo che ha lo scopo di disciplinare gruppi sociali pericolosi. Non si riconosce un diritto ma si definisce una condizione di inferiorità morale da cui i soggetti beneficati devono dimostrare di voler uscire. L’emblema di questa misura è la tessera a punti che i titolari del reddito devono usare dove e come decide il governo. Chi ha la sfortuna di essere nato altrove non avrà nemmeno l’elemosina destinata agli altri.
Se, come prevedibile, le misure sociali del governo non daranno risposte al blocco sociale che lo sostiene, la parola va alla retorica del nemico interno ed alla polizia. Una china scivolosa anche per il ministro dell’Interno, che all’indomani dello sgombero dell’Asilo di Torino, dopo 24 anni di occupazione, ha dichiarato che “dopo aver bloccato gli sbarchi dei migranti, è pronto all’affondo decisivo contro i “delinquenti” dei centri sociali”. Vecchi “nemici” evocati per mantenere il focus sull’ordine pubblico, sulla militarizzazione delle città, sulla stretta disciplinare.
Le periferie delle nostre città sono sempre più polveriere sociali pronte ad esplodere. In alcuni casi sono i fascisti a dare le carte di un gioco truccato, animando le proteste contro rom, profughi, immigrati, altrove la partita è più complessa e difficile da vincere.

Torniamo a Torino.
Lo sgombero dell’Asilo, gli arresti per sovversione, sono stati gestiti occupando militarmente un settore importante della periferia Nord e moltiplicando la pressione disciplinare sulla città.
Chi conosce e vive questa zona assapora da anni il sapore agre del controllo militare cui è sottoposto ogni giorno. Una quotidianità scandita da posti di blocco, retate di stranieri senza documenti, senzatetto, poveri che vivono lavando vetri o smerciando qualcosa.
Tanti di quelli che vivono tra Barriera di Milano e Aurora conoscono gli anarchici, che da decenni sono radicati nel quartiere. Diversi gruppi anarchici hanno o hanno avuto sede qui. Tante lotte, iniziative culturali, di solidarietà e di mutuo appoggio si sono sviluppate tra la Stura e la Dora.
Negli ultimi tempi lo scontro sociale è più duro.
Nei lunghi anni di governo del centro sinistra Torino si è trasformata radicalmente. La metropoli della Fiat, pensata e costruita come città fabbrica, ha lasciato il posto alla città immaginata tra il Politecnico, la stessa Fiat, le Banche e il partito Democratico. Città di servizi, turismo e grandi eventi. Gli antichi borghi operai, luogo di crescente marginalità sociale, sono costantemente sospesi tra riqualificazioni escludenti e il parco giochi di carabinieri, militari e poliziotti.
La giunta a 5Stelle si è velocemente inserita nel solco dei governi precedenti.
L’area di Porta Palazzo è attraversata da un processo di gentrificazione, che ha reso necessaria la normalizzazione violenta del quartiere. Un processo che nel quadrilatero romano venne gestito con infinita lentezza, favorendone l’assorbimento in maniera quasi indolore, ha subito una secca accelerazione.
Segno dei tempi.
Siamo in una periferia tradizionalmente eccentrica, in tutta la densità semantica del termine. Quartiere di poveri e di immigrati vicinissimo al salotto buono della città, luogo dove le pratiche e gli immaginari utopici si sono intrecciati lungo l’arco dell’ultimo secolo.
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