Uno stupratore e la giudice che lo protegge. Scritte al tribunale e alla CRI
Le motivazioni della sentenza di assoluzione di Massimo Raccuia dall’accusa di stupro hanno suscitato ampia indignazione, perché trasformano la vittima in imputata, negandone libertà e dignità.
Ieri scritte sono apparse di fronte al tribunale e sui muri della sede della Croce Rossa.
Qui gli articoli di Stampa e Repubblica.
Di seguito un testo pubblicato su Indymedia Barcellona dal gruppo anarco-femminista “Emma Goldman” che rivendica le scritte.
“Questa notte di fronte al tribunale di Torino è comparsa la scritta “La giudice Minucci protegge chi stupra”.
Sui muri della sede della Croce Rossa di via Bologna è stata vergata la scritta “Raccuia stupratore”.
Massimo Raccuia è un dirigente della Croce Rossa. Accusato di stupro da “Laura”, una precaria della CRI, dopo sei anni è stato assolto da ogni accusa.
In aula, accanto a Laura, sedeva un’altra donna, la ex compagna di Raccuia, che da tempo aveva chiesto ed ottenuto di allontanare la figlia da un uomo che le dimostrava attenzioni poco paterne.
La giudice che lo ha assolto ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, perché proceda per calunnia nei confronti di Laura, la donna violentata da Raccuia.
La giudice Minucci ha deciso che Laura non è credibile. Non è credibile perché ha detto solo no. “No, Basta”, cercando di allontanare da se l’uomo che la stava stuprando. Per Diamante Minucci e le altre due giudici del collegio, dire “Basta” non è sufficiente. Bisogna gridare, correre a farsi fare un test di gravidanza, farsi lacerare la carne e suon di botte.
Il discrimine per Minucci è il martirio. Se lo stupratore non lascia il segno, se la donna non grida aiuto, allora è chiaro che ci stava.
Raccuia è un dirigente, Laura una precaria, già vittima delle violenze durante l”infanzia. Una storia che somiglia a tante altre: in Italia una donna su tre ha subito molestie o stupri. I violenti giocano sulla paura, sul ricatto del lavoro, dei figli, sulla giusta reticenza delle donne a rivolgersi ai tribunali, dove le loro vite sono frugate ed indagate, dove la loro libertà è sempre sul banco degli accusati.
Per noi, che non amiamo né i giudici, né i tribunali, “no” vuol dire “no”, “basta” vuol dire “basta”.
Uno stupro è uno strupro. La discriminante è il consenso.
La cultura dello stupro si nutre di sentenze come quella emessa dalla giudice Minucci.
Stupratori e giudici ci vorrebbero spaventate e piegate, ma la nostra forza è nella solidarietà, nel mutuo appoggio, nella denuncia di violenze e soprusi sui muri della città, nei posti dove viviamo, dove lavoriamo, dove studiamo, dove camminiamo, dove ci divertiamo.
Impariamo a riconoscerci, per lottare insieme contro chi ci vuole vittime e indifese.
Non lo siamo. Abbiamo imparato ad autodifenderci. Le nostre vite valgono.
Gruppo anarco-femminista “Emma Goldman””
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