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Forconi. La Grande Paura

567448_369555_resize_526_394Era la fine di luglio del 1789, pochi giorni dopo la caduta della Bastiglia. Le campagne francesi, piegate dalla carestia, vennero attraversate da un’ondata di panico. Tra i contadini si diffuse la convinzione che l’aristocrazia avesse ordito un complotto ai loro danni. Questa convinzione non aveva reale fondamento, tuttavia il diffondersi di questa voce, che passando di paese in paese, si amplificò, fu all’origine di un moto insurrezionale molto ampio.

Un vecchio ma importante studio dello storico francese Georges Lefevre “La grande paura del 1789” ricostruisce i fatti di quell’estate. Lo storico rilevò che la carestia ingigantiva il timore di attacchi di briganti. La rivoluzione aveva suscitato grandi speranze: nel timore che venissero frustrate dalle resistenze nobiliari, briganti e vagabondi venivano considerati strumenti di un complotto aristocratico la cui reale consistenza e pericolosità fu sopravvalutata dai contadini.

La “grande paura” fu, quindi, un fenomeno di suggestione collettiva destinato ad amplificarsi via via che si propagava. Con una ricerca minuziosa Lefebvre dimostrò il carattere spontaneo e non premeditato della sollevazione. I contadini, armatisi in un primo tempo contro un pericolo illusorio, si spostarono poi su un fronte di lotta di classe ben più reale assaltando i castelli dei nobili e distruggendone gli archivi. La “grande paura” si trasformò così in una reazione punitiva contro l’aristocrazia, che portò all’abolizione dei diritti feudali.

Lessi il libro di Lefevre diversi anni fa e, contrariamente ad altre letture presto dimenticate, le suggestioni che me ne derivarono sono rimaste molto forti.

La rivoluzione delle campagne francesi, dove certo nessuno aveva letto né Voltaire né Rousseau, fu un fenomeno reattivo. La miseria delle campagne non sarebbe bastata a fare da detonatore, mentre la diceria di un complotto aristocratico per affamare i contadini, vendendo all’estero il grano, portò all’assalto di castelli e abbazie. In assenza di un immaginario utopico, la paura del peggio diventa esplosiva.
Il timore che la ferocia dell’oppressione nelle campagne potesse peggiorare, il timore della reazione, fece scattare la rivoluzione.

L’idea di un complotto per realizzare obiettivi abietti, come impadronirsi del mondo, non importa che sia vera, conta invece che sia credibile, che dia senso, all’interno di un orizzonte culturale dato, ad una situazione ritenuta intollerabile e passibile di ulteriore peggioramento.
Quando sei o credi di essere sull’orlo del baratro hai ancora qualcosa da perdere e temi la spinta che ti butterà giù.

Mi è capitato di ripensare alle pagine di Lefevre nei giorni immediatamente successivi alla settimana dei “forconi”.

La paura mi è parsa il detonatore potente che ha portato in strada gente che non c’era mai stata né mai aveva pensato di andarci.

La paura di perdere lo spicchio di futuro al quale si pensava di avere diritto, la paura di un moloch che ingoia tutto, un blob amorale e affamato. Un grande complotto dove le banche e la casta politica sono i nemici del popolo, il popolo inteso come insieme delle persone perbene, dove non c’é distinzione tra sfruttati e sfruttatori. Chi lavora e chi sfrutta il lavoro stanno sulla stessa barca.

Nella sinistra torinese si è sviluppato un dibattito molto ampio, spesso anche aspro.

Diversamente ad altre città italiane a Torino era difficile che il mestolo stesse in mano alla destra cittadina. A Torino sia la destra istituzionale – Fratelli d’Italia – sia chi – come Forza Nuova e Casa Pound – vive nel limbo tra istituzioni e velleità rivoluzionarie – non avrebbero un peso ed una capacità organizzativa tali da poterlo fare.

Un fatto è certo: nelle piazze di Torino e dintorni i fascisti si sono fatti vedere più volte accolti dagli applausi della gente. Come è certo che buona parte delle tifoserie torinesi, ben presenti nei giorni più caldi, siano ormai da lunghi anni egemonizzate dall’estrema destra.

Da che ho memoria le piazze di Torino pavesate di tricolori le avevo viste solo per le partite della nazionale di calcio.

Vedere studenti, disoccupati e mercatari con la bandiera tricolore, non era cosa di tutti i giorni. Non solo. Le serrate dei mercati e dei negozi, i blocchi delle strade e dei mercati generali, l’occupazione delle stazioni, la sassaiola al Palazzo della Regione avevano un carattere esplicitamente eversivo. Sui siti del “coordinamento 9 dicembre” si parlava di “rivoluzione”, “tutti a casa”, “via il governo”, “fase di transizione con militari al timone”. Roba forte.

La protesta contro la pressione fiscale, che aveva segnato qualche settimana prima le lotte dei mercatari, resta sullo sfondo: chi scende in piazza non si accontenta di uno sconto sulle tasse, vuole dare il giro a tutto, farla finita con la “casta” politica che si ingrassa sulle fatiche di chi lavora.

Il governo aveva intuito che in pentola c’era un minestrone molto piccante. La settimana precedente quella del 9 dicembre l’esecutivo guidato da Enrico Letta ha concesso tutto quello che volevano alle organizzazioni degli autotrasportatori, che avevano proclamato una settimana di sciopero e blocchi per protestare contro l’aumento delle accise e delle tasse. Dal canto suo la Coldiretti ha organizzato la manifestazione al Brennero, dove venivano bloccati e perquisiti i camion con la benedizione del ministro.

Queste mosse hanno tagliato le gambe alla protesta del “Coordinamento 9 dicembre”, allontanando lo spettro di un blocco nazionale analogo a quello che l’anno precedente aveva paralizzato la Sicilia.

Queste abili giocate non sono bastate ad impedire che la protesta avviluppasse Torino, con un’eco profonda che ha scosso la città.

I protagonisti delle giornate di dicembre sono i figli del deserto sociale degli ultimi trent’anni. Gente che credeva di avere ancoraggi e certezze e oggi si trova sospesa sul nulla.

Con i compagni a me più vicini abbiamo tentato un’analisi di questo movimento, della sua natura popolare, periferica, perché avvertivamo forte la necessità di capire ed intervenire per poter fermare l’onda lunga di destra che ha messo a loro disposizione un lessico comune, una chiave di lettura ed un orizzonte progettuale.
I protagonisti di quelle giornate sono ceti impoveriti e rancorosi: l’Italia delle clientele prima democristiane e socialiste, poi forza italiote, oggi piegata dalla crisi, dalla pressione fiscale, dall’indebolirsi della compagine berlusconiana e della Lega, partiti politici di riferimento per oltre vent’anni.

Il loro programma – esplicitamente delineato nei volantini tricolori distribuiti in ogni dove – era chiaro: far cadere il governo, sostituirlo con un esecutivo forte e onesto, capace di traghettare l’Italia fuori dall’euro, fuori dall’Europa delle banche, garantendo significative misure protezioniste.

Il tutto all’insegna di una deriva identitaria di segno nazionalista dove la nazione è descritta e vissuta come un corpo sano attaccato da agenti esterni che si ricompone intorno all’alleanza interclassista dei produttori.

Un programma di destra. Di destra radicale.

La retorica dei lavoratori della polizia, sfruttati e vittime di una classe politica corrotta e parassitaria, ne è il degno corollario.

Siamo andati nelle piazze e nei bar ad ascoltare e capire il vento che stava cambiando, perché in periferia, tra i mercati e le strade attraversate dai cortei per l’ordine e la legalità, tra la gente che fatica a campare e non vede prospettive, ci siamo da anni. Da anni sappiamo che l’incapacità di parlare con gli italiani poveri, quelli che guardano con simpatia alla destra xenofoba e razzista, quelli che avevano qualcosa e ora hanno solo paura, avrebbe aperto la strada a chi predica il governo forte, la polizia ovunque, la nazione contro la globalizzazione, l’unione degli italiani, sfruttati e sfruttatori contro il grande complotto internazionale delle banche. Oggi lo chiamano signoraggio: non puntano il dito sugli ebrei ma la melodia della canzone è la stessa dagli anni Trenta del secolo scorso. Gli stranieri di seconda generazione che sventolavano il tricolore con i loro colleghi del mercato non ci stupiscono: li abbiamo visti inveire contro altri stranieri, ultimi arrivati che “delinquono”. Molti di loro assumono giovani connazionali poveri e li sfruttano senza pietà così come gli italiani doc. Il gioco del capitalismo ha le stesse regole feroci ad ogni latitudine. Non conta il colore della pelle ma solo quello dei soldi.

Sono anni che la sinistra radicale si chiede le ragioni di un’assenza incomprensibile. Il conflitto sociale, nonostante la dura materialità che schiaccia le vite di tanti, langue. I movimenti di controglobalizzazione dal basso che avevano segnato il primo scorcio del secolo si sono infranti nell’incapacità di radicare il conflitto nei territori, di dare fiato ad un programma incompatibile con l’ordine esistente.

Di fronte ai forconi c’é chi ha teorizzato la necessità di mescolarvisi, per capire e riorientare le piazze.

A Torino parte della sinistra radicale si è crogiolata nell’illusione che la gente in piazza fosse priva di capi, di organizzazione, di reale comprensione delle ragioni che li avevano condotti lì. Una creta che chiunque avrebbe potuto plasmare e dirigere. Qualcuno ha carezzato invece il sogno di poter governare o alimentarsi delle jacquerie.

È ingeneroso sostenere che la gente “comune” che ha partecipato alle serrate dei negozi ed ai blocchi del traffico non capisse la portata simbolica e reale di un movimento esplicitamente eversivo dell’ordine esistente.

È la solita miscela di orgoglio intellettuale e arroganza che ha accecato la sinistra – sia quella radicale che di governo – in tutti questi anni.

Arroganza della ragione nella convinzione che la povertà della narrazione che ha sostenuto le piazze dei “forconi” potesse essere facilmente reindirizzata altrove. I tentativi di spostare le piazze di spingerle verso azioni più radicali non hanno funzionato.
Sappiamo bene quanta forza abbiano i momenti di rottura, la scelta di uscire di casa, di spezzare l’ordine che ci piega alla quotidianità scandita dai ritmi di una vita regolata altrove, tuttavia in quelle piazze questa forza si è alimentata di simboli che portano lontano da una prospettiva di emancipazione sociale e di libertà.
L’interruzione della quotidianità agita da chi normalmente affida il proprio futuro all’eterna ripetizione del proprio presente è un evento raro, talora foriero di una rottura radicale. Tuttavia la rottura di un ordine non prefigura necessariamente che la strada intrapresa sia quella desiderata da chi vorrebbe libertà e uguaglianza.

È vecchia ma dura a morire l’attitudine a ritenere che chiunque esprima contenuti antisistema possa essere nostro compagno di viaggio. È lo stesso schema che ha portato a sostenere le peggiori dittature, i regimi più feroci nel segno dell’unità antimperialista.

La sinistra civilizzata, nei periodi in cui è riuscita a saltare in sella al destriero governativo ha garantito la vita facile alla grande industria, facilitando la demolizione mattone su mattone di ogni forma di tutela per i lavoratori dipendenti e collaborando attivamente nella trasformazione di tanti di loro in lavoratori indipendenti ma di fatto subordinati. In tempi di crisi il popolo delle partite IVA si ritrova nella stessa condizione dei mercatari torinesi cui il comune chiede 500 euro al mese per la pulizia dei mercati. A tutti questi si aggiungono i tanti giovani – uno su quattro dicono le statistiche – che non hanno né un lavoro né un percorso formativo. Per non dire dei ragazzi degli istituti professionali che sanno di essere parcheggiati in attesa di disoccupazione.

Nelle piazze torinesi animate dal popolo delle periferie, quello cresciuto tra facebook e il bar sport, si sono ritrovati quelli dei banchi dei mercati, qualche disoccupato, i ragazzi degli istituti professionali.

Il loro referente politico negli ultimi vent’anni li aveva recuperati in extremis con la promessa di cancellare l’IMU. Ora non ci crede più nessuno: sempre più gente che credeva di avercela fatta, di essere passata dal popolo degli affittuari al piano alto dei proprietari, teme di perdere tutto, di affondare nella melma.

Fratelli e figli del berlusconismo, rimasti orfani, temono il nulla. Temono che la fame dell’altro mondo non si fermi oltre le frontiere della Fortezza Europa, hanno imparato di non avere né tutele né garanzie. Le regole del gioco sfuggono, come sfugge che il ruolo degli Stati nell’economia si è rafforzato. Non credono nell’eguaglianza, ma nel merito e si sentono defraudati da un sistema che li esclude. I figli degli immigrati di ieri, che lavorano al mercato con padri e madri, sanno che il benessere conquistato dai genitori per loro non c’è. Tra chi sta al banco della frutta ci sono giovani laureati che vivono la vita dei poveri istruiti ma senza appoggi: precarietà, call center, umiliazioni sono pane quotidiano.

Sono gonfi di rabbia. Li ho sentiti gridare nei bar, al mercato, la paura gli urla dentro.

Il complotto delle banche spiega tutto, risolve tutto. La destra estrema li ha generati solo in parte ma se ne alimenta: il sogno della sovranità monetaria, l’immagine dell’Italia come fortezza chiusa, il governo forte ed onesto, la polizia che difende i giusti, le bandiere al vento.

Non è avvenuto per caso e non successo in un giorno.

La sinistra non ha saputo emanciparsi dall’illusione di una ricostruzione del welfare, dello Stato che tutela, della governabilità del capitalismo, dell’attenuazione della sua ferocia.

Che significato poteva avere la debolissima difesa dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per i giovani precari che fanno gli apprendisti a 29 anni e a 30 sono per strada?

La frantumazione sociale costruita scientemente negli ultimi trent’anni ci consegna un quadro dove la solidarietà non trova le proprie basi materiali, dove l’aspirazione ad un oltrepassamento dell’istituito in senso di uguaglianza e libertà non ha il potere seduttivo necessario.

La crisi evidente della seconda repubblica, il disfacimento della classe politica, sta poco a poco raggrumandosi in un’onda reattiva e rivoluzionaria. Difficilmente oggi potrà assumere la forma del fascismo storico, tuttavia la forza che la spinge è potente. Si alimenta dell’idea di un complotto inesistente ma più semplice da comprendere delle reali dinamiche della finanziarizzazione dell’economia. Il padrone, che grazie alla finanza, non possiede più nulla di materiale e può con leggerezza muovere le proprie pedine, diventa la parte sana da difendere, contro le mani invisibili che usano tutti, sfruttati e sfruttatori, come burattini.

Sentiremo ancora parlare dei Forconi. Il loro Coordinamento cialtrone si è spezzato e sfaldato ma la paura, la grande paura che ha riempito le piazze della città vetrina della sinistra perbene, continua a urlare nelle periferie, tra i banchi dei mercati, tra i ragazzi senza futuro.

Maria Matteo
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)

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