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L’ombra di Destà. Una lunga amnesia

Chi si ricorda di Adua? Per tanti è solo un nome femminile, pochi sanno che è una città. Lì il primo marzo 1896 le truppe del generale Baratieri vennero sconfitte da quelle del Negus Menelik II: l’espansione coloniale del regno d’Italia in Africa orientale subì una battuta d’arresto. La città verrà riconquistata nel 1935, durante le prime fasi dell’invasione dell’Etiopia. Da quel momento molte strade verranno intitolate ad Adua, divenuta simbolo del riscatto militare italiano. Tante bambine vennero chiamate così. Una scelta ambigua, che celebra i fasti della virilità guerriera dei soldati, alludendo al destino segnato dello loro figlie, mogli e madri sottomesse.

La lunga amnesia che circonda “l’avventura” coloniale italiana investe le strade, i monumenti, persino i trofei di un colonialismo feroce, che pur dissepolto dall’oblio dagli studi storici degli ultimi decenni, resta negletto nella memoria collettiva.
La memoria non è tuttavia un vuoto. Le carte geografiche dell’Ottocento avevano ampi spazi bianchi: intere regioni dell’Africa erano immaginate come regno di una natura selvaggia, incontaminata.
Il mondo senza mappa era uno spazio da riempire, progettare, usare, mettere a profitto. Lì c’erano le fiere: gli umani che le abitavano non erano pienamente umani, perché estranei alla civiltà. I geografi che tracciavano le mappe delle regioni “selvagge” precedevano e accompagnano mercanti, preti, ingegneri, militari e poliziotti. Erano l’avanguardia della colonizzazione, la cui funzione “civilizzatrice” è rivelata da quel buco nella mappa.
Terre da occupare, riempire, fecondare. Terre rappresentate come donne prosperose in attesa della vigoria maschile del colonizzatore.
Le donne, indicate come posta in palio della conquista, ne sono il segno distintivo. Le nuove terre da coltivare erano rappresentate con corpi di ragazze discinte, la colonna sonora era “Faccetta nera”, le icone le cartoline di donne nude scattate a beneficio delle truppe.
Dopo la conquista la propaganda muta di segno: il mito della venere nera, selvaggia, animalesca ma desiderabile, cede il passo ad un’immagine disgustosa, ripugnante, quasi deforme, veicolata dalla rivista “La difesa della razza”.
“Faccetta nera”, la colonna sonora della conquista, viene vietata. Dagli stupri legalizzati nel madamato, il matrimonio temporaneo, nascevano bambini, che rischiavano, se riconosciuti, di inquinare la razza, di meticciare gli italiani.
I figli degli italiani dovevano nascere da madri italiane, la cui fecondità veniva elogiata e premiata.
Chi vi trovasse eco nella propaganda per aumentare la natalità, nelle promozione di politiche familiste e patriarcali ai giorni nostri non si stupisca. Le radici profonde di questa narrazione non sono mai state estirpate.

Il progetto coloniale italiano inizia con l’Unificazione d’Italia nel 1861 ed è il fulcro della costruzione dell’identità nazionale.
La nascita dell’Africa Orientale Italiana, dopo la violentissima conquista dell’Etiopia nel 1936, è il punto d’approdo di un processo iniziato a fine Ottocento. Il primo atto sono gli acquisti di Assab e Massaua tra il 1882 e il 1884, l’annessione dell’Eritrea, il protettorato somalo nel 1890, l’occupazione della Cirenaica, della Tripolitania e del Dodecaneso tra il 1911 e il 1912. Senza dimenticare l’espansione ad est dopo la prima guerra mondiale.
L’Italia perde il proprio impero coloniale dopo la sconfitta nel secondo conflitto mondiale.
L’Italia repubblicana opera un’ardita identificazione tra colonialismo e fascismo.
Dopo la sconfitta, la caduta del fascismo, l’occupazione statunitense dell’Italia, il nazionalismo trionfante si attenua e muta di segno, alimentando il mito degli “italiani brava gente”, un mostro subdolo, che assolve il fascismo dai crimini di guerra di cui il governo e le truppe italiane si macchiarono in Libia, Somalia, Eritrea, Etiopia, Spagna, Grecia, Albania durante le guerre che si erano succedute nei precedenti sessant’anni.
Il mito degli “italiani brava gente” è una terribile forma di negazionismo. I massacri, le torture, i campi di concentramento, l’uso di gas sulla popolazione civile sono stati negati o dimenticati. Le responsabilità degli orrori sono state sistematicamente nascoste o attribuite ad altri, il governo tedesco o il regime fascista.
L’Italia è l’unico paese colonialista a non aver mai fatto i conti con la propria storia. Una storia che i più ignorano, coltivando la convinzione che il colonialismo italiano fosse diverso da quello francese, inglese, tedesco, in virtù di una sorta di indole bonaria innata nelle popolazioni della penisola.
Le fucilazioni di massa, le deportazioni, le torture, i villaggi bruciati, le donne stuprate, i bombardamenti indiscriminati sono orrori accaduti altrove, agiti da altri. La mappa delle colonie italiane torna opaca. La narrazione coloniale dei decenni precedenti continua a circolare nell’immaginario popolare.
Le strade, le case, le ferrovie, la “civiltà” portata ai “selvaggi”, ai barbari ingrati ne sono l’emblema. La mancata cesura con il fascismo, centrata sulla mera epopea resistenziale, letta come lotta di liberazione nazionale dall’occupante tedesco, non apre la strada ad un necessario processo di decolonizzazione dell’immaginario.

La cassetta degli attrezzi da cui attinge la memoria collettiva resta aperta, pronta all’uso. Ed apre la via alla storia degli ultimi anni, dove il retaggio coloniale, mai risolto, riemerge ed alimenta la propaganda leghista e fascista contro gli invasori che dai tanti luoghi dove le mappe sono ancora quelle di una spoliazione che continua in altre forme.

La pratica di abbattere, coprire o colorare statue, di modificare la toponomastica diviene oggi lo strumento di ricostruzione di una memoria collettiva colonizzata dalla rassicurante favola degli italiani brava gente, poco inclini alla violenza, caritatevoli.
Azioni che disinnescano i simboli concreti di una storia, di cui sono le sentinelle di marmo, bronzo, pietra.
Montanelli, il cui monumento è stato imbrattato per la seconda volta in pochi mesi, è il fulcro di un dibattito che ha infiammato i social, deflagrando nelle prime pagine dei giornali.
Ma.
Perché Montanelli? Perché non Baldissera, Graziani, Badoglio, i rappresentanti della monarchia savoiarda? Perchè solo su Montanelli gli animi si sono accesi, le posizioni si sono divaricate, si sono scomodati i talebani e la storia dell’arte?

Montanelli rappresenta la cesura mancata tra fascismo ed antifascismo, che, senza soluzione di continuità, arriva sino ai giorni nostri.
Sin dal dopoguerra il quadro delle alleanze internazionali e la real politik di Togliatti impedì una defascistizzazione reale. L’amnistia che liberò i fascisti, compresi quelli che si erano macchiati di torture e crimini, mise una pietra tombale su ogni possibilità di fare i conti con la realtà della dittatura. Men che meno con quella del colonialismo.
Il discorso del presidente post-comunista della Camera Violante del 1996 non rappresenta una rottura con il mito fondativo della Repubblica Italiana, ma si dipana coerentemente dallo stesso gomitolo di Togliatti. Il “Migliore”, nel 1936, mentre le truppe italiane facevano servizi all’iprite alle popolazioni etiopi, lanciava un appello ai «fratelli in camicia nera», intitolato «Per la salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano!». Riconciliazione è la parola chiave del discorso pronunciato da Violante nel giorno del suo insediamento come presidente della Camera dei deputati. Riconciliazione come uno straccio che cancella una memoria fatta di gesso, mai piena, perché vuotata, sin dall’origine, dello sguardo dei colonizzati.
Le anime belle della sinistra governativa italiana non hanno mai fatto realmente i conti con la propria storia, che si fonda sulla negazione dell’internazionalismo e l’abbraccio con il nazionalismo tricolore e l’intero suo retaggio.

Gli stereotipi del razzismo in salsa padana, la cui volgarità indigna gli intellettuali opachi della sinistra italiana, sono custoditi nella cassetta degli attrezzi costruita durante l’epopea feroce del colonialismo italiano.
L’umanità delle popolazioni colonizzate era pressoché inattingibile. Pavidi, feroci, stupratori gli uomini, animalesche e disponibili le donne.
Gli stessi moduli vengono usati dai fascioleghisti per raccontare i migranti. Gli esponenti del PD, che si sono inginocchiati per George Floyd alla Camera, hanno scritto le leggi che rendono clandestini uomini, donne e bambini, trasformandoli in schiavi ricattabili, sottoposti ad infiniti soprusi e violenze.
La sinistra istituzionale ha sottoscritto con la Libia gli stessi accordi della destra. I responsabili delle stragi in mare siedono su tutte le poltrone del parlamento.

Montanelli, che, fascista non pentito, attraversa la storia italiana in un misto di cialtroneria e abile trasformismo, è l’emblema vivo di un’epoca mai finita, che continua ad alimentare l’immaginario. E, soprattutto, continua a mietere vittime.
Montanelli rivendica sino all’ultimo la propria avventura coloniale. La storia di Destà, la bambina comprata come schiava sessuale e serva, viene raccontata con compiaciuto distacco come un aneddoto curioso, divertente. Remoto.
Ne parla come di un cane preso al mercato, pulcioso ma fedele. Destà è un “grazioso animaletto”, non è umana, non è neppure una bambina. La narrazione dello stupro, attuato con la collaborazione della madre, che “apre” la figlia infibulata, è atroce nella sua “normalità”.

La stessa “normalità” dei barconi dove viaggiano le donne africane, tutte stuprate e torturate nelle prigioni libiche. I fatti sono noti. Le immagini, le testimonianze di quest’orrore post coloniale sono disponibili per tutti, senza muovere nulla. Gli stessi che si inginocchiano per George Floyd hanno appena sottoscritto un ulteriore aumento dei fondi destinati ai criminali della guardia costiera libica.

Una “normalità” che segna il destino delle ragazzine africane che, seminude ma invisibili, sono esposte al mercato come Destà, la bambina comprata e stuprata da una delle colonne del giornalismo italiano.

La vernice sulla statua di Montanelli ci racconta una storia che continua sui barconi, nei campi, nelle case dove vivono le serve-badanti, lungo i marciapiedi ai margini delle metropoli.
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(Questo articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)

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