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I No Tav tra urne e barricate

L’apertura dei cantieri per realizzazione della nuova linea ad alta velocità ferroviaria, che consegnerà la Val Susa al destino di corridoio logistico per le merci, è ormai molto vicina.
Siamo prossimi al punto di non ritorno.
La vita degli abitanti cambierà per sempre. Camion carichi di smarino e polveri d’amianto percorreranno la valle a est come a ovest, mettendo a repentaglio la salute di tutti. Il dispositivo militare investirà poco a poco anche zone densamente abitate. La perdita di falde acquifere sarà inevitabile e irreversibile.
La lucida profezia fatta quasi 30 anni fa dal movimento No Tav rischia di trasformarsi in dura realtà.
Una realtà che appare in tutta la sua crudezza dopo la lunga sbornia a 5Stelle.
I giochi elettorali hanno inghiottito enormi energie, senza alcun risultato, se non quello di allontanare ancora di più le persone dall’impegno diretto, dall’azione sul territorio, dal confronto sulle strategie per mettere in difficoltà l’avversario.

Nel maggio del 2018 5Stelle e Lega stavano perfezionando il loro contratto di governo. Nel contratto si parlava di riesame della Torino Lyon. L’opzione zero non è mai stata neppure sul tavolo.
Chi aveva puntato tutto sui 5Stelle poteva vantarsi che la favola della soluzione istituzionale a decenni di lotta No Tav avrebbe avuto un lieto fine.
Oggi sappiamo che la storia ha avuto un ben diverso epilogo. Dopo una lunghissima manfrina il sì alla realizzazione dell’opera è infine arrivato. I 5 Stelle, sedotti e abbandonati dalla Lega, si sono alleati con il PD, un altro partito Si Tav, e la partita si è chiusa.
Le procedure per l’avvio dei lavori vanno avanti. La discarica d’amianto sequestrata dalla Guardia di Finanza a Salbertrand, nel luogo destinato a fabbrica di conci per la realizzazione del tunnel mostro di 57 chilometri da Susa a San Jean de Maurienne, è solo un intoppo passeggero. Le ultime elezioni locali hanno indebolito, anche se non sradicato, il fronte istituzionale No Tav, mentre il movimento non ha saputo né voluto fare i conti con la scelta della delega istituzionale. Alla vigilia della annuale manifestazione No Tav dell’8 dicembre, la maggiore preoccupazione dell’assemblea svoltasi a Bussoleno il 27 novembre, è stata il recupero in corner dei gonfaloni dei sindaci per la marcia da Susa a Venaus.
Un fatto è certo: se, come probabile, in primavera verranno assegnati gli appalti per il tunnel transfrontaliero, la partita si giocherà ancora una volta per le strade. I santi sono tornati in paradiso e la notte è senza stelle.

Non sarà facile. Non lo è mai stato, ma oggi pesa il fardello di una scelta istituzionale, che, ancora una volta, ha coinvolto anche i settori di movimento, la cui narrazione pubblica parrebbe di grande radicalità.
Una scelta per la quale, dalla “Valle che resiste”, nonostante le varie iniziative di solidarietà ai migranti, non si era mai levata una voce netta e chiara contro il ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli, che chiudeva i porti, rendendo sempre più aspra la guerra nel Mediterraneo.
Non una parola contro il governo della polizia, della galera, della guerra ai poveri, dei morti in mare e sulle rotte di montagna. Eppure era ampiamente prevedibile che i 5 Stelle, dopo aver mollato la gente di Taranto, i No Tap, i No Muos, i No Terzo Valico, si sarebbero scordati di pagare la mancetta elettorale a chi aveva rinchiuso in un’urna il destino di un movimento, che tante volte era riuscito, con la propria sola forza, ad obbligare l’avversario a fermarsi.
Queste scelte pesano come macigni e rischiano di ipotecare il futuro, se i No Tav non abbandoneranno la metafora fallace dello sgabello a tre gambe che regge il movimento. Una gamba il movimento popolare, un’altra i tecnici, la terza quella istituzionale.
In primavera o più in là, quando riprenderà l’offensiva del governo, sapremo se i No Tav sapranno reggersi saldamente sulle proprie due gambe.
La responsabilità di questo movimento è andata ben al di là delle montagne valsusine.
In questi anni anni chi si batteva contro la Torino Lyon era divenuto un punto di riferimento per chi si opponeva a tante altre grandi opere inutili e dannose. Non solo. La lotta contro il treno super veloce è stata anche lotta contro la logica feroce del capitalismo, dello sfruttamento delle risorse e degli esseri umani. Ormai da tanto quella No Tav non era più una mera storia di treni. Era la storia di uomini e donne che avevano assaporato il piacere dell’azione diretta, della politica come luogo di confronto e scelta fuori da ambiti gerarchici, radicata tra le persone. Un’aria di libertà. Di solidarietà con gli immigrati, con gli oppressi, con le fabbriche in lotta, con gli sfrattati, gli antifascisti.
Le derive elettoraliste c’erano sempre state, come anche la capacità di capire e correggere gli errori, nella consapevolezza che solo il movimento popolare, solo i nostri corpi, solo le nostre barricate potevano fermare l’opera e dare, insieme, una bella botta ad un immaginario sociale dove tutto è merce.
Non solo. L’illusione pentastellata è stata ben più forte ed insidiosa di quella per i partiti di sinistra, che, per mantenere le poltrone, avevano fatto repentini dietro front.
La pratica della delega ha negato la storia di chi ha bloccato per decenni il Tav con l’azione diretta, quando un’intera valle è divenuta ingovernabile.
Il sostegno al governo gialloverde è stato un errore molto grave. Il movimento ha rischiato di ridursi ad una logica nimby, nell’abbraccio mortale con i 5Stelle, che, pur dichiarandosi No Tav, si erano sempre caratterizzati per posizioni razziste, xenofobe e giustizialiste.
Oggi si ricomincia su una strada ingombra di macerie. Il percorso è in salita.
La lunga illusione pentastellata ha finito con il rendere residuale la pratica dell’azione diretta. Un lungo inverno durato cinque anni.
Quest’epilogo ha tuttavia radici che vanno ben al di là della scelta istituzionale, che anzi, è stata l’ultima sponda di un movimento che era stato messo alle corde da una durissima repressione e da un’altra, ancor più potente illusione: quella della lotta di lunga durata, il sogno folle di logorare un nemico tanto più forte. Un nemico deciso a spezzare le ossa a chi era stato in grado di infilare un macigno nell’ingranaggio che rendeva possibile il drenaggio di risorse pubbliche per fini privati. L’enorme bancomat della politica, ma non solo.

Facciamo un passo indietro.
Nel 2005 un’insurrezione popolare fermò un progetto ormai entrato nella fase esecutiva.
Il governo usò la forza, occupò militarmente il territorio, sgomberò con la violenza le barricate della Libera Repubblica di Venaus.
Fu obbligato a fare marcia indietro. Il governo capì che la valle era ormai divenuta ingovernabile, che la gente avrebbe moltiplicato blocchi e barricate. In quel dicembre nessuno era disposto a tornare indietro, tutti erano protagonisti. L’eco di quanto avveniva in valle attraversò la penisola, suscitando indignazione e simpatia. Le olimpiadi invernali erano ormai alle porte.
Nel 2011, dopo anni di melina, consapevole di aver riportato all’ovile solo qualche politico a caccia di poltrone, il governo decise di usare nuovamente la forza.
Non si fece prendere alla sprovvista: l’avanzata delle truppe di occupazione fu lentissima ma inesorabile, in un continuo crescendo di violenza e repressione.
La danza dei manganelli e dei lacrimogeni e il tintinnare di manette sono stati la cifra di quegli anni. E non è ancora finita. In questi mesi i procedimenti arrivano all’ultimo grado di giudizio e le porte del carcere si aprono per i condannati in modo definitivo.
La grande favola della democrazia si è sciolta come neve al sole. Ogni volta che libertà, solidarietà, uguaglianza vengono intese e praticate nella loro costitutiva, radicale alterità con un assetto sociale basato sul dominio, la diseguaglianza, lo sfruttamento, la competizione più feroce, la democrazia mostra il suo vero volto.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti opinione ineffettuale, mero esercizio di eloquenza, semplice gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia si fa discorso del potere che nega legittimità ad ogni parola altra. Ad ogni ordine che spezzi quello attuale.

Il governi hanno giocato la carta del logoramento, puntando sulla rassegnazione, sulla difficoltà a fermare cantieri difesi da esercito, polizia, carabinieri, blindati.
I sabotaggi, le marce notturne, i sassi e i fuochi d’artificio non hanno mai messo in difficoltà il dispositivo militare intorno al cantiere.
Il governo ha scelto con cura il terreno dove sfidare i No Tav, lo stesso dove ora si aprirà il nuovo cantiere. Un luogo disabitato, dove è stato facile prendere il controllo delle vie d’accesso e costruire un fortino chiuso e ben difeso. Se i militari e gli addetti delle ditte controllavano le strade ai No Tav restavano solo i sentieri. Lo stato ha messo in campo truppe da montagna, gente abituata a stare nei boschi. Così anche i sentieri sono diventati difficili da raggiungere e percorrere. Continuare a “salutare” le truppe di occupazione con fuochi d’artificio ricambiati con lacrimogeni è diventato un esercizio tanto pericoloso quanto inutile. Un esercizio che ha moltiplicato nell’immaginario mediatizzato dei movimenti il mito dei partigiani di valle, ma non ha mai messo in difficoltà l’avversario.
I tentativi di spostare il terreno di lotta, di provare ad allargare il conflitto nell’intera valle e a Torino sono stati duramente contrastati da chi puntava sulla delega e da chi perseguiva propri progetti egemonici.
La sconfitta che ne è derivata ha riaperto le strade alla delega istituzionale.

È importante che la memoria non vacilli: i No Tav hanno sostenuto ed appoggiato la pratica dell’azione diretta contro il cantiere e le ditte collaborazioniste, i blocchi delle strade e delle ferrovie, lo sciopero generale, le grandi marce e i sabotaggi.
Fermare il Tav è la ragion d’essere del movimento. Ma la strada per arrivarci è importante quanto la meta. In questa storia non ci sono scorciatoie. In ballo c’è molto di più di un treno: la libertà e la dignità di chi non tollera l’imposizione con la forza di una scelta non condivisa.
Il 2005 nessuno lo pianificò ma accadde. I primi a stupirci fummo noi. Le barricate, i tronchi in mezzo alla strada, il blocco delle strade furono la risposta all’occupazione militare. La gente smise di delegare e divenne protagonista della propria storia. Tutti insieme, per le strade e i sentieri. Con il grido degli indiani di valle si scese nella neve, finché l’inverno dei poliziotti e dei manganelli su costretto ad andarsene. Loro erano i più forti, ma sapevano che il seme della rivolta che cresceva all’ombra del Rocciamelone rischiava di attecchire in ogni dove. E per un po’ quell’aria di libertà si diffuse per la penisola.
La partita non si giocò e non si vinse nel pratone sotto i piloni dell’autostrada che incombe su Venaus. Lì l’8 dicembre 2005 andò in scena solo l’ultimo atto. La partita la vinse la gente che poche ore dopo lo sgombero a Venaus bloccò strade, autostrade, ferrovie, paesi. Era il culmine di una storia cominciata molti anni prima. Una storia che si è nutrita del sapere condiviso che tanta gente ha saputo far proprio, impastandolo con l’acqua viva delle proprie aspirazioni ad un mondo di liber* ed eguali. Un mondo dove non sia normale che le merci contino più delle persone. Viviamo un tempo dove solo chi consuma è cittadino, mentre gli altri sono poco meno che scarti da seppellire.
Nel 2005 si vinse rendendo ingovernabile la valle. Si vinse perché la partecipazione diretta andò ben al di là delle soggettività politiche più radicali: trattare da nemici anche tanti semplici cittadini in quel momento non era facile.
La Valle deve tornare ad essere ingovernabile.
Dobbiamo scegliere noi i tempi e i luoghi, perché il movimento popolare torni ad essere protagonista, perché il governo sia obbligato a fare marcia indietro. Si può chiudere in gabbia un cantiere, non un intera valle. I nuovi lavori ci offriranno occasioni nuove per mettere in difficoltà i nostri avversari, dipende solo da noi coglierle.
Il futuro non si delega: oggi come allora solo l’azione diretta, senza deleghe, può creare le condizioni per fermare ancora una volta la corsa folle, di chi antepone il profitto alla vita e alla libertà di tutti.

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