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Torino. Processo agli antifascisti. Un pugno di mosche

Tutto comincia l’11 giugno del 2005. Nella notte una squadraccia fascista entra nel cortile del Barocchio Squat e ferisce a coltellate due anarchici. Uno dovrà essere operato d’urgenza perché la lama gli ha perforato l’intestino.
La settimana successiva un corteo antifascista percorre le strade di Torino. In via Po la polizia sbarra la strada per impedire ai manifestanti di proseguire verso piazza Castello. Qualche minuto di fronteggiamento, un paio di spinte, e parte la carica. Nella fuga i manifestanti buttano in strada qualche sedia e qualche tavolino per intralciare l’avanzata della polizia. In pochi minuti tutto è finito. Nella mani della polizia restano quattro compagni, due dei quali, Massimiliano e Silvio, verranno arrestati, perché “colpevoli” di essersi attardati per dare una mano agli altri che erano caduti in terra.
Trascorreranno 13 giorni in carcere, prima di essere rilasciati con obbligo di firma. Il giorno dopo il loro rilascio una manifestazione nazionale, promossa dalla Federazione Anarchica Torinese, attraversa le strade del centro. In vista del corteo il giudice del riesame si era affrettato a liberarli.
Ma non è finita.
Nella Torino che si prepara alla kermesse olimpica – sullo sfondo la questione Tav che in dicembre sfocerà in vera rivolta popolare – si vogliono sperimentare nuove formule repressive.
Dieci compagni vengono arrestati con l’accusa di devastazione e saccheggio, l’osservatorio contro la repressione Fenix viene sgomberato e sequestrato.
Verranno detenuti – tra carcere e domiciliari – per sei mesi.
Poi parte il processo, un processo in cui la procura gioca tutte le sue carte, per cercare di applicare un reato da tempi di guerra come “devastazione e saccheggio” ad una banale manifestazione di piazza. In quegli anni la magistratura italiana tenterà di intimidire l’opposizione sociale costruendo impalcature accusatorie analoghe anche a Genova – per il G8 – e a Milano – per il corteo antifascista dell’11 marzo 2007. A Milano e a Genova l’operazione andrà in porto, a Torino fallirà ed il PM che si era giocato la carriera, Marcello Tatangelo, si trasferirà a Milano.
Il processo di primo grado terminerà il 10 dicembre del 2007. Il reato di “devastazione e saccheggio” cade ed i 12 imputati, alcuni dei quali accusati anche per il presidio al CIE del 19 maggio 2005, incollato a casaccio nello stesso procedimento, verranno condannati per resistenza a pene variabili tra i 9 e i 18 mesi.
Dopo quasi sette anni a fine maggio c’è stato il processo di secondo grado. La sentenza del 25 maggio ha ridotto le pene a tutti gli imputati ed ha assolto Massimiliano. Le condanne sono state tra l’anno e i 10 mesi.
Nonostante l’indubbia gravità che anche queste condanne rivestono, resta il fatto che dopo sette anni la Procura torinese ne esce con un pugno di mosche.

Il fallimento sostanziale della strategia dei PM è un fatto che dimostra l’importanza delle campagne di informazione e lotta sulle vicende repressive.
Minimizzare l’ondata repressiva, per spavalderia o per timore che tanti si sottraggano alle lotte per paura della repressione, è un errore: la vicenda degli antifascisti torinesi lo dimostra in modo chiaro. Oggi più che mai occorre osteggiare in modo forte le iniziative della magistratura, che sempre più è strumento per la repressione e il disciplinamento dell’opposizione sociale e politica.