Skip to content


CIE. Tutto cambia, tutto resta come prima

5183659551_87dc4ea26d_zLo scorso 23 dicembre quotidiani ed agenzie hanno battuto la notizia che il governo avrebbe deciso di ridurre ad un mese il tempo di reclusione nei CIE prima dell’espulsione.
Il primo ministro Enrico Letta, nella conferenza stampa di fine anno, ha dichiarato che “la discussione della Bossi-Fini sarà uno dei temi di gennaio. Gennaio è passato ma il governo Letta non ha fatto seguire alle parole i fatti.
In questo mese l’unico segnale è arrivato dal Senato che ha abolito il reato di “immigrazione clandestina”, limitandolo alla recidiva. Un fiore all’occhiello senza nessuna conseguenza reale, poichè dopo l’adeguamento forzato alla direttiva europea sui rimpatri, non era più
previsto il carcere ma una multa che nessuno pagava.
Di un fatto siamo sicuri. Se davvero venissero cancellati i 18 mesi di CIE questo non sarebbe certo dovuto alla buona volontà del governo, ma alle lotte degli immigrati, che in questi anni li hanno fatti a pezzi, pagando un prezzo durissimo. Botte, umiliazioni, arresti, condanne.

Oggi rimangono aperte solo quattro galere per immigrati senza documenti (Torino, Roma, Pian Del Lago, Bari), le altre, una dopo l’altra, sono state fatte a pezzi e bruciate dai reclusi. Il governo ha dovuto chiudere i CIE di Gradisca, Trapani Vulpitta, Bologna, Modena, Crotone, Milano, Trapani Milo.
Di un mese fa l’annuncio che il CIE di Modena, usato per punire gli immigrati più ribelli, ha chiuso per sempre i battenti.
Gli altri ufficialmente sono tutti in attesa di ristrutturazione, ma non c’é nessuna notizia certa su una possibile riapertura. Si diceva che a gennaio avrebbe riaperto il Centro di Bologna ma il centro di via Mattei è ancora chiuso.
A Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e Palazzo San Gervasio (Potenza) potrebbero sorgere due nuovi CIE, dopo l’avventura presto finita dell’emergenza Nordafrica. Il governo ha stanziato 13 milioni di euro ma non si sa se i lavori abbiano preso l’avvio e che punto siano.
Tutti i CIE ancora aperti sono stati a loro volta gravemente danneggiati dalle continue rivolte. In base ai dati, ormai calcolati per difetto, dello stesso Viminale, degli oltre 1800 posti dei CIE ne sarebbero ancora agibili meno della metà ed effettivamente riempiti nemmeno un terzo.
La macchina delle espulsioni è ormai al collasso.
Il governo è in bilico tra Renzi e Berlusconi, gli specialisti della guerra contro i poveri sono alle prese con la rovina dei loro leader, i poliziotti premono perché non vogliono più fare i secondini nei CIE, dove si rischia di incappare nella rabbia di chi, giorno dopo giorno, si vede sfilare via la vita.
Il CIE è un limbo che precede la deportazione, una sala d’aspetto con sbarre e filo spinato in attesa di un viaggio che nessuno vuol fare.
Che qualcosa bollisse nella pentola del governo sul tema immigrazione era chiaro sin dalla strage di Lampedusa del 3 ottobre.

Il modo in cui venne trattata la vicenda, le dichiarazioni di Letta sulla volontà di superare la Bossi-Fini, erano i primi segnali di un campagna politico mediatica che preparava il terreno ad un mutamento di rotta.
L’apparato mediatico messo in piedi la diceva lunga sulla volontà di fare leva sulla commozione suscitata dal racconto della strage per preparare il terreno a qualche dichiarazione ad affetto.
Per contrasto è interessante rilevare come da mesi le notizie sulla situazione al limite del collasso nei CIE fossero tenute in sordina, probabilmente perché il governo non sapeva che pesci prendere di fronte ad una questione che, come la pietra di Sisifo, continuava a rotolargli addosso.
In questo mese e mezzo non si è certo placato il fuoco delle rivolte nei CIE, come dimostra la breve cronologia in coda a quest’articolo.
Diificile dire ora se il governo metterà davvero mano alla normativa sui CIE riportanto la detenzione ad un mese, tuttavia numerosi segnali indicano che la ricetta individuata dal governo potrebbe essere decisamente più complessa del “semplice” riattamento dei CIE distrutti e dell’eventuale apertura di nuove strutture.
Vediamo come.


La decisione di spedire gli immigrati reclusi nelle patrie galere a scontare gli ultimi due anni nei paesi d’origine assunta con il decreto svuotacarceri prenderebbe due piccioni con la solita fava. Alleggerire il sovraffollamento carcerario e, nel contempo, evitare il trasferimento nei CIE e la trafila del riconoscimento/espulsione dell’immigrato. Difficile dire se funzionerà, perché molto dipende dalla disponibilità dei paesi di emigrazione ad accettare questo pacco/dono dall’Italia.

Al ministero stanno inoltre studiando la possibilità di introdurre dei secondini privati per le funzioni di sorveglianza a diretto contatto con i reclusi. Qualche solerte e sinistro esperto del business dell’umanitario, come il consorzio Connecting People, propone di trasformare i CIE in campi di lavoro.

L’ultimo accordo di cooperazione militare tra l’Italia e la Libia è stato sottoscritto a Roma il 28 novembre 2013 dai ministri della difesa Mario Mauro e Abdullah Al-Thinni. Il memorandum autorizza l’impiego di droni italiani in missioni a supporto delle autorità libiche per le “attività di controllo” del confine sud del Paese. Si tratta dei droni Predator del 32° Stormo dell’Aeronautica militare di Amendola (Fg), rischierati in Sicilia a Sigonella e Trapani-Birgi nell’ambito dell’operazione “Mare Nostrum” di controllo e vigilanza del Mediterraneo. Grazie ai Predator, gli automezzi dei migranti saranno intercettati quanto attraversano il Sahara e i militari libici potranno intervenire tempestivamente per detenerli o deportarli prima che essi possano raggiungere le città costiere.
Secondo quanto dichiarato dal Ministero della difesa italiano a conclusione del vertice del 28 novembre, “nell’ottica di uno sviluppo delle capacità nel settore della sorveglianza e della sicurezza marittima, è emersa anche la possibilità di imbarcare ufficiali libici a bordo delle unità navali italiane impegnate nell’Operazione “Mare Nostrum”, nonché di avviare corsi di addestramento sull’impiego del V-RMTC (Virtual Maritime Traffic Centre)”.
Il governo Letta ha deciso di consentire ai militari libici, famosi nel mondo per “l’attenzione ai diritti umani”, di partecipare a bordo della “San Marco” e delle fregate lanciamissili italiane all’identificazione e agli interrogatori delle persone “salvate” nel Canale di Sicilia. Ferocia militare in salsa umanitaria: una specialità del Belpaese, confermata dall’operazione militare “Mare Nostrum”.

La storia di F. l’hanno raccontata tutti i principali quotidiani. Grandi emozioni per la testimonianza dell’unica superstite della strage di Lampedusa, una ragazza eritrea, che testimoniando contro uno degli mercanti di carne umana, ha raccontato le botte, gli stupri continui, i ricatti, gli omicidi che avevano segnato la sua vita di ragazza all’alba della vita. La sua storia era lo specchio di tante altre. Con lei erano centinaia di profughi incappati nel destino obbligato di chi fugge guerre e persecuzioni, attraversando il deserto ed il mare.
Le pagine dei giornali trasudavano commozione, sdegno, solidarietà umana.
Gli accordi italo/libici del 28 novembre hanno trovato ben poco spazio sui media.
In sordina anche la notizia che a gennaio è cominciato a Cassino l’addestramento dei militari libici che verranno impiegati nella repressione dell’immigrazione clandestina. Letta come Berlusconi, Alfano come Maroni nel 2009 decidono di esternalizzare la repressione, affidando ai libici il lavoro sporco di fermare, imprigionare, respingere profughi e migranti. Le storie come quella di F., la diciottenne eritrea, picchiata, stuprata, venduta, scampata per un pelo al Mare Nostrum, non le racconterà più nessuno. La sabbia sarà il sudario che coprirà ogni cosa.

Il quadro che ne emerge ci pare chiaro. Outsourcing della repressione alla frontiera sud, riduzione degli internati con il trasferimento anticipato dei carcerati nei paesi d’origine, accoglimento delle proteste dei poliziotti, in parte esonerati dal compito di secondini, probabilmente una maggiore attenzione alle prescrizioni della direttiva rimpatri. La riduzione del periodo di detenzione ed esplulsioni più veloci sembra essere la ricetta del governo per evitare di spendere altri soldi per la ristrutturazione di centri che, prima o dopo, gli immigrati danno alle fiamme. Per condire il tutto un pizzico di umanità in più (se trovano i soldi).
Una polpetta avvelenata e uno zuccherino.
Niente da eccepire: Letta dimostra un’abilità degna dei vecchi democristiani.
Maria Matteo
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero del settimanale Umanità Nova)

In merito ascolta anche l’intervista fatta dall’info di Blackout a Federico, un compagno in prima fila nella lotta contro i CIE

°°°°°

40 normali giorni nei CIE. Fuoco, rivolte, bocche cucite

21 dicembre. Quattro immigrati si sono cuciti le bocche per protestare contro il prolungarsi della detenzione nel CIE di Ponte Galeria a Roma.
Immediatamente il quotidiano “La Stampa” ha pubblicato la notizia con il massimo del rilievo e il titolo “protesta choc”. Chi segue da anni le lotte degli immigrati nei CIE della penisola non può che constatare amaramente che si tratta di uno “choc” a scoppio ritardato, uno “choc” mediatico, studiato a tavolino per aprire la strada a qualche provvedimento sui CIE. Sono anni che gli immigrati si cuciono la bocca per protesta, sono anni che dai CIE filtrano le immagini che riprendono le bocche serrate da fili robusti, ferite dall’ago, simbolo di una resistenza che cerca di spezzare il silenzio. Inutilmente.
A Torino nel lontano 2009 alcuni compagni fecero iniziative perché si parlasse di quelle bocche cucite, di quelle bocche serrate perché anche le urla si schiantano sul muro dell’indifferenza. I media parlarono del dito e nascosero la luna. Quella vicenda, come le lotte di quegli anni, è approdata in due maxi processi al tribunale di Torino.
Oggi tutto sembra cambiato.
L’atteggiamento nei confronti dell’immigrazione clandestina si sta modificando. Sospettiamo tuttavia che probabilmente tutto debba cambiare, perché tutto resti come prima.

°°°°

22 dicembre. Un deputato del PD, Khalid Chaouki, dopo una visita al Centro di prima accoglienza di Lampedusa, ha deciso di non andarsene, facendosi rinchiudere con i profughi dimenticati lì da mesi. Tra loro i superstiti del naufragio del 3 ottobre, che suscitò commozione ed indignazione anche istituzionale, ma, al di là della pubblica esibizione di cordoglio, delle promesse di superamento della Bossi-Fini, nulla è cambiato.

°°°°°

23 dicembre. Quotidiani ed agenzie battono la notizia che il governo avrebbe deciso di ridurre ad un mese il tempo di reclusione nei CIE.

°°°°

24 dicembre. Mentre il governo si esibisce in promesse la vita pressata dietro le sbarre urge.

A Roma, dove i reclusi con la bocca cucita erano diventati dieci, cominciano le prime, veloci esplulsioni di chi lotta.

A Lampedusa, dove continua la protesta del deputato PD autorecluso nel CIE, sono cominciati, dopo tre mesi, i trasferimenti sulla terraferma degli scampati al naufragio.
Il quotidiano “La Stampa” ci serve in prima pagina alcune storie di vite spezzate, di profughi scampati al mare.

Al CIE di Bari-Palese i reclusi danno vita ad una rivolta durissima.

A Torino i reclusi sono in sciopero della fame dopo un feroce pestaggio fatto nel settore femminile del giorno prima. Per “punire” una donna nigeriana che aveva morso il dito di un agente, i poliziotti avevano pestato a sangue tutte le nigeriane recluse. La ragazza del morso è stata successivamente trasferita in isolamento.

°°°°

25 dicembre. Il principale quotidiano spagnolo, “El Pais” pubblica in prima pagina la “notizia” della rivolta che sta squotendo il CIE italiani. I media francesi a loro volta danno ampio spazio alle vicende italiane. La lotta durissima degli immigrati senza carte che in tanti anni affogava nel silenzio, all’improvviso e non certo per caso travalica i confini nazionali.

°°°°

28 dicembre. Il CIE di Modena, chiuso da mesi in attesa di ristrutturazione, non riaprirà più. I lavori previsti non prenderanno avvio. Lo ha annunciato il Prefetto della città. Dopo 11 anni il CIE dove venivano spediti gli immigrati che più si erano distinti nelle lotte, chiude i battenti.

A Milano invece la struttura di via Corelli è stata completamente vuotata in vista della ristrutturazione.

°°°°

13 gennaio. Notizie stampa riferiscono di una possibile chiusura del CIE di Trapani Milo per consentire l’avvio di lavori di ristrutturazione per per 600.000 euro. Lo scopo esplicito è aumentare i dispositivi di sicurezza per rendere più difficili rivolte e fughe.

°°°°

15 gennaio. Una rivolta scuote il CIE di Torino, dopo le espulsioni di una ventina di nigeriani il giorno precedente. Vanno a fuoco i materassi nell’area gialla e in quella viola. I reclusi trascorrono la notte nella saletta mensa.

°°°°

19 gennaio. Nel CIE di Torino vanno a fuoco i moduli abitativi dell’area rossa. I prigionieri delle due camerate sono stati spostati nella mensa dell’area gialla, che si era salvata dalla rivolta del 15 gennaio, quando sono bruciate le aree gialla e viola. In tutto il Centro non ci sono stanze libere. Tutte le aree maschili sono gravemente danneggiate: la viola è completamente distrutta, nella gialla resta in piedi solo la mensa, nella bianca e nella rossa c’è soltanto una stanza, nella blu ne restano due. Contando la quindicina di reclusi nelle celle di isolamento, nel CIE ci sono soltanto una sessantina di reclusi: meno di un terzo di quelli che la struttura potrebbe contenere se funzionasse a pieno regime.

°°°°

22 gennaio. Chiude per ristrutturazioni il CIE di Trapani Milo. Se ne parlava da qualche settimana, ma solo oggi arriva la conferma della decisione di chiudere per “rendere più sicura” la struttura. Muri più alti, centraline elettriche lontane dalle mani dei reclusi, ristrutturazione delle tante aree danneggiate da anni di rivolte.

Durante i lavori il prefetto, Leopoldo Falco, potrà cercare di risolvere la difficile questione della gestione della struttura, sino ad oggi saldamente in mano alla famigerata cooperativa “Oasi”, dopo la rinuncia della cooperativa “Glicine”, che aveva vinto l’appalto.

°°°°

24 gennaio. Riesplode la lotta al CIE di Ponte Galeria a Roma. 20 reclusi in sciopero della fame, nella speranza che, come per alcuni reclusi nel CIE di Pian del Lago, si aprano le porte della prigione. A Pian Del Lago, l’ultimo CIE siciliano rimasto aperto, il giorno prima alcuni immigrati erano stati liberati per far posto ai reduci della rivolta del 19 gennaio a Torino. Il giorno successivo si diffonde la notizia che 13 reclusi hanno deciso di cucirsi la bocca. I media, come già accaduto a dicembre, danno un discreto rilievo alla notizia. 

 

Posted in controllo, immigrazione, Inform/Azioni.

Tagged with , .


One Response

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

Continuing the Discussion

  1. CIE. Tutto cambia, tutto resta come prima | O capitano! Mio capitano!... linked to this post on 3 Febbraio 2014

    […] CIE. Tutto cambia, tutto resta come prima – anarres-info. […]