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Memoria di Stato

foglie-morte-museo-ebraico p colorL’Italia non ha mai fatto i conti con la propria storia coloniale, con il fascismo, con la guerra in Jugoslavia, in Grecia, in Africa. Il mito degli “italiani brava gente”, assunto in modo trasversale a destra come a sinistra, fonda il nazionalismo italiano, un nazionalismo che si nutre di un’aura di innocenza e bonarietà “naturali”.
In Italia la memoria è la prima vittima del nazionalismo, che impone una sorta di memoria di stato, che diviene segno culturale condiviso. Una sorta di marchio di fabbrica. Si sacrificano le virtù eroiche ma si eleva l’antieroismo dei buoni a cifra di un’identità collettiva.
Peccato che sia tutto falso. Falso come i fondali di cartone dei film di qualche anno fa. Eppure, nonostante le ricerche storiche abbiamo mostrato la ferocia della trama sottesa al mito, questo sopravvive e si riproduce negli anni.
La gestione delle giornate della “memoria” e del “ricordo” assunte in modo bipartisan dalle varie forze politiche ha contribuito ad alimentare questa favola rassicurante, impedendo una riflessione collettiva che individuasse nei nazionalismi la radice culturale del male.

Vi proponiamo di seguito un’intervista allo storico triestino Claudio Venza, realizzata dall’informazione di radio Blackout in occasione giornata del ricordo di quest’anno.
Ascolta l’audio

Di seguito l’articolo scritto da Venza per il settimanale anarchico Umanità Nova in occasione della giornata del ricordo del 2007.

Tra i puntelli di un apparato burocratico e mediatico, economico e militare, si colloca anche un dato culturale: la Memoria di Stato. Una Memoria che unifica il ricordo del genocidio di milioni di ebrei nei lager nazisti con quello di una violenza molto più circoscritta e di significato profondamente diverso. Nel 2000 la sinistra aveva cantato vittoria per la Giornata della Memoria del 27 gennaio, nel 2004 è il turno della destra che fissa il 10 febbraio quale giornata del Ricordo delle foibe e gode della indubbia conquista politica e mediatica.
Ovviamente i vertici dello Stato cercano di istituire una assonanza tra due eventi incomparabili e usano parole di convenienza che mirano ad un fine ben preciso: sacralizzare l’identità nazionale. E ciò emerge in modo plateale proprio nel secondo tempo di questo indigesto film dai toni tricolorati e dalla regia istituzionale.
Il 10 febbraio è stato scelto come rievocazione del Trattato di pace del 1947, quello che ha sancito per l’Italia sconfitta la perdita di qualche fetta di territorio al confine orientale. A questa data sono collegate le uccisioni di un paio di migliaia di abitanti, prevalentemente italiani, delle zone istriane e l’emigrazione forzata dei giuliano-dalmati che sono stimati attorno alle 250.000 unità (dal 1944 alla fine degli anni Cinquanta). Ma soprattutto nell’immaginario collettivo sono ormai entrate, come un incubo, le voragini carsiche delle foibe in cui una parte dei morti vennero gettati. Qui vi è un evidente elemento di psicologia sociale inconscia: queste fosse comuni improvvisate, dove erano stati già gettati cadaveri di soldati tedeschi e animali, rappresentano agli occhi di molti italiani di oggi una cavità infernale e un’ulteriore motivo di rivendicazione nazionalista.
Attorno alle foibe ruotava per decenni la propaganda nazionalista e neofascista a Trieste e dintorni, esagerando a dismisura il numero degli uccisi e degli esuli e presentando l’evento come un atto di “barbarie slavo-comunista”. Ora i termini sono meno esplicitamente razzisti, ma in compenso il tema è stato assunto come proprio da quasi tutte le forze politiche. Anzi buona parte dei politici di sinistra, a cominciare dai vertici istituzionali, recita l’autocritica per la “cecità ideologica” che avrebbe fatto dimenticare questi italiani, e quindi fratelli, povere vittime innocenti. Sempre più spesso si ignorano volutamente le pesanti responsabilità dell’esercito italiano che occupò la regione di Lubiana e che non fu meno feroce dei nazisti. Incendi, impiccagioni, fucilazioni, deportazioni e torture furono praticate su larga scala per domare la resistenza partigiana. Tutto ciò si sommò alla valanga di misure repressive, linguistiche e penali, che aveva caratterizzato, per un ventennio, il dominio dei fascisti italiani sulle popolazioni slave.
Ogni storico con un minimo di dignità sa che le violenze rivolte agli italiani sconfitti di queste zone vanno inquadrate nel contesto bellico e postbellico e che si spiegano, in buona parte, come risposta all’oppressione nazionale precedente. Per motivi di opportunismo politico e di consenso elettorale, molti politici confermano però l’immagine degli “italiani brava gente” ingiustamente colpiti solo per motivi di odio e malvagità nazionale. Questo odio certamente esisteva, e procurò anche delle ingiustizie individuali, ma aveva forti radici e ragioni nell’esperienza patita collettivamente da chi, con un enorme costo umano, aveva sostenuto la lotta degli antifascisti.
La comoda etichetta dell’italiano, militare o civile, buono e umanitario (molto migliore del tedesco cattivo e feroce) si basa sull’esaltazione di pochi casi isolati di non collaborazione con i piani della repressione sanguinaria. Lo scopo inconfessabile di tale propaganda è di oscurare il collaborazionismo di massa con la politica della terra bruciata che, anche in Jugoslavia, fu condotta senza incertezze né pietà dall’esercito italiano di occupazione.
Il diffuso vittimismo nazionale nell’Italia di oggi vuole nascondere la verità storica proprio mentre i politici gareggiano nel pentimento per la propria amnesia del passato sul tema delle foibe. Il Ricordo di Stato deve essere unilaterale, aumentare le dimensioni, condire la rievocazione con particolari raccapriccianti e spesso non dimostrati. Gli infoibati sarebbero stati delle persone senza alcun coinvolgimento nell’occupazione fascista, scelti solo come italiani, colpiti in quanto non si piegavano al vincitore slavo e alla dittatura comunista. Anche se è ben vero che il nuovo potere jugoslavo era il risultato di un totalitarismo politico fuso con un esercito particolarmente gerarchico nato in durissimi scontri armati, non va dimenticato quanto gli italiani, quasi tutti, di queste regioni giuliano-dalmate si fossero identificati nel regime fascista che li favoriva in tutti i modi.
Per dovere storico, non va cancellato il fatto che i responsabili italiani, militari e funzionari di polizia, di molti crimini di guerra in Jugoslavia furono protetti dai regimi democratici italiani e che “per carità di patria” i processi a tali imputati non furono mai svolti. L’Italia democratica e formalmente antifascista del 1946, anche con il sostanziale accordo delle sinistre, dapprima promise di consegnare i criminali di guerra italiani agli stati che li richiedevano, poi dichiarò di processarli in patria, infine favorì la loro fuga all’estero. Vi furono anche casi di reintegro nell’apparato statale e di folgorante carriera, fino alla carica di prefetto. È l’ennesima prova della permanenza nelle istituzioni post 1945 di un’intera generazione di funzionari fascisti in grado di difendere il loro passato di “servitori dello stato”.
Se le vicende drammatiche delle foibe e le volontà di non dimenticare non fossero un alibi per rimuovere i lati oscuri dell’Italia fascista e postfascista, tutti gli “armadi della vergogna” delle violenze belliche di parte italiana dovrebbero essere aperti. Essi offrirebbero le informazioni documentate per una vera e non vittimistica storia del ruolo di molti italiani durante e dopo il tragico regime la cui responsabilità non fu certamente solo di un tale nato a Predappio.
Claudio Venza (da Umanità Nova)

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