La scintilla della rivolta è scattata domenica 7 aprile. Un ragazzo diabetico è stato preso, identificato come clandestino e internato nel CIE.
Un sopruso intollerabile al quele molti prigionieri hanno reagito con forza.
Le prime proteste sono scoppiate nel cortile. Poi molti immigrati a sono saliti sui tetti continuando a gran voce a chiedere la liberazione del ragazzo malato. Le prime cariche non sono bastate a reprimere la rivolta, tanto che le guardie hanno chiesto l’intervento di rinforzi dall’esterno.
Sono entrati in azione di militari dell’esercito, della finanza e i carabinieri in assetto antisommossa: molti detenuti sono stati feriti.
All’esterno un gruppo di solidali hanno sparato fuochi d’artificio a sostegno della rivolta, mentre la voce di quel che accadeva che si diffondeva rapidamente.
Il lunedì successivo due parlamentari sono entrati al CIE per un controllo della situazione.
Lo stesso giorno due detenuti, dopo aver ingurgitato lamette da barba, venivano portati in ospedale per accertamenti. Entrambi sono riusciti a fuggire: il primo lunedì, il secondo martedì.
La situazione al CIE di Modena è sempre più tesa: i 45 detenuti attuali – la capienza massima è di 60 – sanno che con ogni probabilità verranno rimpatriati.
Il CIE di Modena è quello dal quale vengono fatte più deportazioni.
Il 70% degli immigrati espulsi coattivamente lo scorso anno erano rinchiusi nel Centro modenese.
La detenzione media a Modena non supera i due mesi, perché in questo CIE, che nasce come una sorta di struttura punitiva, le condizioni di vita sono tali che molti optano per il rimpatrio volontario.
Chi fa questa scelta viene “premiato” perché riduce da cinque a due anni il periodo in cui gli è vietato tornare in Italia.
Anarres ne ha parlato con Simone, un compagno di Reggio Emilia. Ascolta il suo intervento
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