Sabato 20 aprile. Pioggia e temporali concedono una breve tregua. Ci ritroviamo sotto la tettoia di piazza Madama, perché fuori ancora goccia e non è il caso di rischiare largo Saluzzo.
Un po’ di cose buone da mangiare e poi parte l’assemblea. Ci sono Gilberto e Caterina, un medico e un infermiera della microclinica Fatih, l’ambulatorio di via Revello dove non chiedono i documenti a chi sta male. C’è Stefania Gatti, una procuratrice legale che ci racconta il CIE di corso Brunelleschi, la gente che si taglia, non mangia, fa lo sciopero della fame. Poi ci sono alcuni degli antirazzisti che sono sotto processo per essersi messi di mezzo, per aver cercato di contrastare la militarizzazione delle strade, lo sgombero degli abusivi di Porta Palazzo, per aver solidarizzato con le famiglie rom che si erano prese una casa vuota, lasciandosi alle spalle le baracche nel fango del lungo Stura. Si discute, si confrontano le esperienze, si costruiscono relazioni.
Poi si va.
In giro per le strade della movida di San Salvario, tra la gente che affolla i tanti locali della zona.
In testa la samba, poi la gabbia CIE, e noi tutti. In tutto un centinaio di persone.
Siamo qui per portare il CIE in mezzo alla città, per raccontare la storia di Fatih, morto nel CIE di Torino, tra le grida disperate dei suoi compagni che chiesero inutilmente aiuto.
Dall’altra parte delle gabbie c’erano allora – e oggi ancora sono lì – quelli della Croce Rossa.
Aguzzini ben pagati.
Il colonnello e medico Antonio Baldacci, responsabile del CIE, di fronte ad un uomo lasciato agonizzare nella sua cella accusa i prigionieri di mentire.
Dopo cinque anni Baldacci è ancora al suo posto, gli antirazzisti che lo contestarono sono sotto processo. Un processo che non permetteremo resti chiuso tra le mura di un tribunale, perché nei CIE la violenza, le umiliazioni, i pestaggi, la lotta e la rivolta segnano, oggi come in quel maggio del 2008, la vita dei senza carte che vi sono reclusi.
Da uno dei tanti locali esce un uomo che inveisce: teme di perdere clienti, parla di quattro figli da mantenere. Peccato che ben tre di quei posti siano suoi.
La gente se ne infischia, ascolta, legge i volantini.
Mentre torniamo riprende a piovere. La tregua è finita.
Il CIE nella movida
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– 23 Aprile 2013
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