La situazione in Siria ed il possibile intervento armato degli Stati Uniti sono stati al centro del dibattito politico dell’ultima settimana. L’attacco, già dato per certo giovedì scorso, potrebbe avvenire tra poche ore o essere ancora rimandato.
Anarres ne ha parlato con Stefano, un compagno che segue con attenzione le questioni geopolitiche.
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L’unico dato certo è la difficoltà dell’amministrazione statunitense a mettere insieme una coalizione che lo appoggi nella scelta di bombardare. Solo la Francia di Hollande pare entusiasta della prospettiva di partecipare all’ennesima avventura bellica. Nemmeno gli scarsi risultati dell’attacco alla Libia hanno convinto i francesi che l’epoca della grandeur coloniale è definitivamente tramontata per loro. L’ambizione a (ri)mettere mano sugli antichi domini in medio oriente è forte al punto che Hollande ha dichiarato che l’attacco potrebbe avvenire persino prima del pronunciamento del parlamento subalpino.
Si è invece sfilata la Gran Bretagna dopo la bocciatura in parlamento. Evidentemente le relazioni con la Russia, madrina del regime di Assad, devono aver avuto il loro peso nell’allargare la distanza tra le due sponde dell’Atlantico.
L’Italia, nonostante il ministro Bonino sia tradizionalmente sbilanciata verso gli Stati Uniti, mantiene un profilo bassissimo, reclamando un improbabile quadro di legalità nel quale inserire la missione come precondizione persino per la concessione delle basi. Ovviamente, vista la presenza di importanti basi militari statunitensi e Nato nel nostro paese, quella di Bonino è una foglia di fico, che tuttavia segnala una scarsa propensione ad un impegno diretto contro la Siria. È bene ricordare che militari italiani sono schierati con la forza di “pace” in Libano: un eventuale coinvolgimento in Siria del governo italiano difficilmente resterebbe senza risposta da parte degli hezbollah shiti libanesi, che in Siria combattono a fianco degli alauiti di Basher Assad. Gli hezbollah hanno stretti rapporti con l’Iran, paese con il quale l’Italia ha intensi scambi commerciali.
È significativo che, diversamente dalla copertura unanime alla fandonia sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, la grande stampa italiana non si sia sbilanciata nell’accreditare la strage al gas nervino a Damasco.
Leggete per esempio l’articolo di Francesca Borri su La Stampa – peraltro molto interessante sia per la cronaca che per l’analisi. Oppure quello di Giuseppe Ferrari – molto esplicito nel supporre una montatura – sul Corriere della Sera.
Una guerra per la Siria non sarebbe certo un buon affare per gli interessi dell’Italia. Ben diversa era la situazione in Libia, dove gli attacchi francesi, inglesi e statunitensi rischiavano di compromettere seriamente gli interessi dell’ENI nel paese, nonché di far saltare i preziosi accordi di outsourcing della gestione dei flussi migratori. Una esternalizzazione preziosa perché affidata ad un regime che non doveva piegarsi ai fastidiosi limiti imposti dalla formale adesione ad accordi sui diritti umani o di asilo. L’intervento contro l’amico Gheddafi ha consentito all’Italia di mantenere le proficue relazioni commerciali con il paese.
L’altro importante attore in campo, la Turchia, ha invece un grosso interesse ad una vittoria dell’esercito libero sostenuta da Ankara, che nella prospettiva neo ottomana di Erdogan, si candida da tempo a potenza regionale in campo sunnita. Se a questo si aggiunge che nelle regioni curde del nord est siriano si è rafforzata la fazione vicina al PKK, che di fatto lavorano per un’autonomia territoriale dei villaggi, proteggendoli dagli attacchi dei due contendenti in campo, l’interesse turco alla guerra è molto chiaro.
In quanto all’intervento statunitense è probabile che manterrà le caratteristiche indicate da Obama, di azione punitiva di breve durata. Sebbene per gli interessi statunitensi la caduta di un alleato forte della Russia e dell’Iran sarebbe del tutto auspicabile, l’affermarsi di una coalizione eterogenea dominata da Al Quaeda e dalle forze salafite appoggiate dall’Arabia Saudita e dai Fratelli Musulmani sostenuti da Qatar e Turchia, non è certo una prospettiva che favorirebbe gli interessi degli Stati Uniti e di Israele, pur sempre un importante alleato nell’area.
L’analisi del politologo statunitense Edward Luttwak ci pare la più credibile. Luttwak, in un articolo uscito il 24 agosto sul New York Times, sostiene che la prospettiva migliore per gli Stati Uniti sia il prolungarsi di una guerra che riduca in macerie la Siria, indebolendo enormemente Assad, senza tuttavia abbatterne il regime. Luttwak suggerisce quindi ad Obama di non intervenire.
Interessante in merito anche l’editoriale odierno di Panebianco sul Corriere.
D’altra parte, proprio nella prospettiva indicata da Luttwak, se gli Stati Uniti non intervengono Assad potrebbe riprendere il controllo del paese: alcuni bombardamenti mirati potrebbero indebolirlo, garantendo il prolungarsi della guerra. E dei morti. Bruciati dalle bombe all’uranio impoverito di cui sono dotate le portaerei statunitensi, sparati dai fucili dell’esercito libero o da quelli di Assad. Gasati o smembrati dalle bombe. Che differenza fa?