Il braccio di ferro tra l’amministrazione Obama e l’ala dura del partito democratico ha portato allo shutdown, ossia alla chiusura per mancanza di fondi di numerosi servizi e strutture dello Stato federale.
Sul piatto il cosiddetto Obamacare, la riforma sanitaria che dovrebbe garantire un’estensione dell’accesso alle cure per migliaia di statunitensi che ne sono esclusi.
Non si tratta, bene inteso, di una forma di tutela simile a quelle delle vecchie socialdemocrazie europee, poiché il principio che l’accesso alle cure è garantito in base ad un’assicurazione sanitaria individuale, non viene scalfito. Obama si limita a mettere a disposizione fondi pubblici per consentire ad un maggior numero di persone di accedere alle cure. Inoltre vengono modificate alcune regole per impedire alle assicurazioni di rifiutare la copertura sanitaria a soggetti a “rischio” perché obesi, fumatori, senza un lavoro regolare.
I repubblicani avrebbero voluto uno slittamento di un anno del provvedimento, Obama, che su questo tema si è giocato l’immagine della propria presidenza, ha deciso di non cedere alle pressioni del Tea Party, che ha reagito provocando lo shutdown.
Sebbene Obama sia riuscito in extremis a trovare la copertura per garantire il funzionamento del Pentagono, la situazione resta critica.
Se il 17 ottobre Obama non riuscisse a stringere un accordo con i repubblicani e questi mantenessero la linea dura, il rischio, ben più grave sarebbe quello del deafult, un fallimento che trascinerebbe nella propria rovina l’intero pianeta.
Il nocciolo che questa vicenda ci consente di enucleare è che l’impero americano è un impero a credito. Gran parte del gigantesco debito estero degli Stati Uniti è nelle mani della Cina, del Giappone, degli stessi stati europei, che, se da un lato hanno in mano una gigantesca arma di pressione sugli Stati Uniti, dall’altro però rischiano a loro volta il tracollo. Un grosso debito inesigibile fa fallire il creditore non meno del debitore. La corda al collo degli Stati Uniti stringe anche chi ne detiene il credito, rischiando di soffocare entrambi.La finanza internazionale basata sul debito sovrano da al creditore la possibilità di imporre al debitore condizioni molto dure, ma, nel caso degli Stati Uniti l’equilibrio si mantiene grazie alla fiducia che il creditore ha nel debitore, fiducia che si basa sulla valutazione che gli Stati Uniti siano una grande potenza. Una grande potenza che in alcune occasioni ha usato il potere di deterrenza legato alla consapevolezza che il fallimento degli USA trascinerebbe con se il sistema finanziario internazionale, aprendo scenari di guerra globale.
Negli ultimi anni i paesi creditori degli Stati Uniti hanno proposto uno slittamento del sistema finanziario verso una pluralità di monete leader, puntando ad un sistema in cui il dollaro non sia l’unico perno su cui si basa il sistema mondiale di scambi.
Nell’attuale situazione il default degli Stati Uniti non sarebbe paragonalile a quello dell’Islanda, della Grecia o dell’Argentina. La mera notizia che il gigante americano dichiari ai propri creditori che riceveranno il 50% o finanche il 30& di quanto loro dovuto farebbe sì che dal giorno successivo la gran parte degli Stati moderni avrebbe difficoltà a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni.
Se non si cambiano radicalmente e in fretta le relazioni sociali le conseguenze di un eventuale default statunitense sarebbero inimmaginabili.
La forza con cui gli Stati Uniti hanno costruito la fiducia che gli consente di accumulare un debito di gran lunga superiore a quello di paesi falliti e alla mercé della governance transnazionale che detta le regole per non affogare, è essenzialmente quella militare.
L’indebitamento statunitense è di gran lunga superiore al loro Pil e sopravanza di almeno uno zero quello della Grecia o dell’Italia.
Dalla crisi del 2008 si sta incrinando la fiducia nella capacità statunitense di esercitare il proprio imperio mondiale: queste crepe minano l’architrave sulla quale si basa l’intero edificio. Le tante guerre perse degli ultimi anni hanno contribuito ad erodere l’immagine dei padroni del mondo.
In Europa ha avuto scarsissima eco la decisione degli Stati Uniti di adottare misure protezioniste. L’IVA sui prodotti americani è al 15%, anche se a produrre sono aziende straniere con stabilimenti negli Stati Uniti, mentre sale al 25% per i prodotti esteri.
Non siamo più ai tempi dei Baldi e dei Peruzzi, i banchieri fiorentini che avevano il mano un enorme credito del regno di Inghilterra, che li ridusse sull’orlo del fallimento.
Oggi il default degli Stati Uniti farebbe saltare il mondo. Sempre che, ovviamente, non si riesca ad allestire un diverso spettacolo.
Non c’è molto tempo. L’eternità dell’effimero mercantile è un’illusione pericolosa.
Shutdown. Crepe nell’impero americano
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– 11 Ottobre 2013