In questi anni abbiamo assistito ad un processo di decomposizione della politica persino sorprendente nei suoi modi. E’ come assistere alla messa in scena di ciò che normalmente è fuori dai riflettori, affidato agli specialisti delle camere mortuarie, che preparano il cadavere per l’ultima esposizione pubblica prima della sepoltura.
L’oscenità in senso etimologico, ossia l’esposizione del disordine dietro i fondali, della confusione dei camerini, dei volti senza trucco. Se dovessimo trovare una formula per questa nostra epoca potremmo dire di essere passati dalla politica spettacolo allo spettacolo della politica. Farsesco, impudico, esibito sino all’estremo. Eppure insuperabile.
Intorno alla questione della decadenza da senatore di Silvio Berlusconi e alla crisi di governo abortita in extremis, il gioco delle alleanze, delle amicizie, delle poltrone, degli interessi si è mostrato senza infingimenti. Nudo. Una nudità senza vergogne di sorta. Scilipoti che inveisce contro i traditori che abbandonano la barca che affonda è l’immagine più emblematica della politica che da spettacolo, mostrando la propria trama senza esitazioni né traumi.
Se il berlusconismo ha segnato il passaggio dalla politica ideologica alla politica dell’immagine, il tramonto del vecchio leader pare segnare il passaggio all’avanspettacolo, alla farsa, all’operetta.
Il buffone diventa re e recita la parte con la stessa ferocia del proprio modello.
La distanza tra il buffone che si fa re, i continui “scandali” che rendono pubblica la corruzione profonda della politica (e della società), allargano la distanza tra l’apparato istituzionale e le vite concrete di quanti vivono esistenze precarie, prive di prospettive, ancorate a scelte appannaggio di una governance transnazionale che detta la propria agenda alle istituzioni nazionali. Oggi la politica ha visto erodere il proprio potere di controllo dell’economia e, quindi, di presa sulla società, se non nella forma più squisitamente disciplinare.
Anarres ne ha discusso due settimane fa, prima della pantomima della mancata crisi di governo, con Salvo Vaccaro, che insegna filosofia politica all’università di Palermo.
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La settimana successiva il rientro della crisi di governo, l’IVA è aumentata, l’IMU per i ricchi non è passata, la “manovrina” da 1,6 miliardi è stata approntata.
Anarres ha ripreso il filo della discussione con Stefano Boni, antropologo dell’università di Modena e Reggio, collaboratore di Libertaria.
Ne emerge un’immagine della politica come una sorta di reality show, affidato a logiche di merketing. Ogni aspetto della comunicazione politica diviene sempre più simile alla pubblicità dei prodotti. Secondo un recente sondaggio la fiducia nei partiti è all’8%, l’astensionismo, che alla fine degli anni 70′ si attestava intorno al 10% oggi è cresciuto sino a sfiorare il 50% nelle ultime ammnistrative: uno su cinque di quelli che avevano votato la volta precendente non ha più votato alla recente tornata elettorale. Secondo Boni tra i motivi di disaffezione dalla politica è la constatazione della sua perdita di potere a favore delle istutuzioni finanziarie, che dettano l’agenda ai governi, impongono nuove tasse, arrivando, come in Grecia e in Italia, ad imporre lo spesso presidente del consiglio. L’altro cuneo che allarga la frattura tra i cittadini e le istituzioni è la constatazione degli enormi privilegi dei politici di professione, la cui moralità è tanto bassa da lucrare persino sulle calamità nazionali. Ne consegue che il ruolo della politica è mantenere il consenso e la pace sociale, attraverso la delega ad un qualche partito, a qualsiasi partito. Il gioco tuttavia funziona sempre meno. Tanta parte dei movimenti che si sono sviluppati nelle diverse latitudini del pianeta ha costruito – almeno nella propria fase aurorale – relazioni egualitarie e libertarie, mettendo in campo una critica radicale alla delega politica. Il fulcro di questi movimenti è l’assemblea dove si decide con il metodo del consenso, riffuggendo quindi metodi basati sul principio di maggioranza.
Il nocciolo politico è la messa in discussione della sovranità, del diritto dello Stato ad imporre le proprie decisioni, un nodo che ovviamente non si scioglie a livello istituzionale, ma in una pratica che si oppone alla dimensione istituita. La Costituzione italiana è intrinsecamente ipocrita, poiché affida la sovranità al popolo ma nei fatti gliela sottrae stabilendo che i modi del suo esercizio sono definiti all’interno di istituzioni date, ossia affidate ai palazzi.