18 ottobre, sciopero generale del sindacati di base. Non succedeva da anni. Il sindacalismo di base, frantumato in tante organizzazioni, è riuscito ad accordarsi per uno sciopero unitario. Tre giorni prima era uscita la legge di stabilità del governo Letta.
Due le manifestazioni nazionali indette per la giornata: a Roma USB e Cobas, a Milano la Cub e il Si.Cobas, ciascuno nelle aree geografiche di maggiore presenza. Diversa la scelta dell’USI e di tanti lavoratori e movimenti sociali, che hanno puntato sul radicamento nei territori, sulla lotta nelle città e nei luoghi di lavoro.
Oltre a Roma e Milano, ci sono stati cortei, picchetti, presidi, punti informativi a Firenze, Parma, Modena, Cosenza, Torino, Trieste, Palermo, Jesi.
Di seguito i resoconti di Parma, Milano, Firenze, Trieste, Roma, Torino.
Massimiliano da Parma:
Stefano da Milano:
Claudio da Firenze:
Federico da Trieste:
Francesco da Roma:
Di seguito il volantino distribuito nel presidio che si è svolto a Torino:
Disoccupazione, povertà, sfratti. Finite le carote, resta il manganello
Il termine crisi è stato tanto usato da diventare logoro. Un rumore di sottofondo che si ode ogni volta che il governo attua tagli ai servizi e alle assunzioni, aiuti alle aziende, aumenti delle imposte.
È il rumore che ha accompagnato tutti i discorsi sulla flessibilità pretesa ed imposta ai lavoratori, la riduzione delle tutele, il taglio delle pensioni, la precarietà permanente, la disoccupazione cronica, la retorica dei giovani e la retorica dei vecchi, tutte orientate a ingannare gli uni e gli altri, facendoli sentire in colpa tutti.
Peccato che negli anni della “crisi”, tra il 2008 ed oggi i super ricchi, i Paperoni, sono cresciuti.
L’economia è un gioco a somma zero: se qualcuno perde, qualcun altro guadagna. In questi anni vissuti male, con la fatica di arrivare a fine mese, giocata sul risparmio su tutto, compreso l’essenziale, qualcuno, già ricco, lo è diventato di più.
In questo paese ci sono case vuote e gente in strada, c’è chi lavora troppo per molto poco e chi non lavora affatto. Truppe tricolori uccidono e occupano l’Afganistan mentre qui chiudono gli ospedali.
I soldi per la guerra e le grandi opere inutili ci sono sempre, mancano invece per le mense dei nostri bambini, la salute, la scuola, i trasporti locali.
Il governo sta preparando una nuova manovra di lacrime e sangue.
Tra il 2008 e il 2012 hanno perso il lavoro 750.000 uomini e donne, più i 270.000 cassaintegrati di lungo corso, destinati presto ad allungare le file dei disoccupati.
Se ai senza lavoro ufficiali si sommano i tanti lavoratori obbligati al part time, gli inoccupati non iscritti alle liste, gli scoraggiati che non cercano più, i precari che lavorano pochi giorni al mese il numero dei disoccupati reali arriva al 30%, ossia circa 3 milioni e centomila persone prive di lavoro e di reddito.
Un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni non lavora e non va scuola.
L’esecutivo guidato da Enrico Letta ha sancito anche sul piano formale la realtà del partito unico che ci ha governato in alternanza per vent’anni.
L’affermarsi di una democrazia autoritaria è il necessario corollario a politiche di demolizione di ogni forma di tutela sociale. Se i meccanismi violenti della governance mondiale impongono di radere al suolo ogni copertura economica e normativa per chi lavora, la parola passa al manganello, alla polizia, alla magistratura. Quando la guerra diventa normale, quando le stesse truppe di mercenari tricolori passano dall’Afganistan alla Val Susa, la repressione verso chi si ribella non può che incrudirsi.
Le questioni sociali sono trattate sempre più come questioni di ordine pubblico. Chi lotta per la casa, il reddito, la difesa del territorio viene trattato come delinquente o addirittura terrorista.
La crisi morde sempre più forte, specie nelle periferie, dove solo le pratiche di autogestione, riappropriazione e solidarietà pongono un argine alla guerra contro i poveri che i governi di centro sinistra e quelli di centro destra hanno promosso negli ultimi vent’anni.
La crisi della politica di Palazzo, testimoniata dall’estendersi dell’astensione elettorale, ci offre una possibilità inedita di sperimentazione sociale su vasta scala di un autogoverno territoriale che si emancipi dai percorsi istituzionali.
Il capitalismo – la cui unica morale è il profitto qui ed ora per i pochi che vincono alla roulette russa – porta alla distruzione delle risorse, alla desertificazione del pianeta, alla riduzione a merce di chi per campare deve lavorare per fare più ricchi i ricchi.
Vogliono farci credere che questo è l’unico orizzonte possibile, che sfruttati e sfruttatori sono sulla stessa barca, dove si campa o si affonda insieme.
Chi oggi lotta, chi costruisce e libera spazi, chi blocca la produzione e la distribuzione delle merci, chi sciopera senza farsi intimidire dai divieti, chi si autorganizza sui territori, dimostra che c’è un altro mondo possibile. Dipende da ciascuno di noi costruirlo.
Ogni giovedì dalle 21, in corso Palermo 46, riunione – aperta agli interessati – della Federazione Anarchica Torinese