Martedì 19 novembre un duplice attentato ha colpito il quartiere Bir Hassan nel sud della capitale libanese. Una zona elegante dove si trova sia l’ambasciata iraniana sia la dirigenza di Hezbollah, la milizia shiita, che affianca il regime di Bashar Hassad nella guerra civile contro l’esercito libero della Siria. L’attentato nel quale sono morte 23 persone e altre 146 sono rimaste ferite, è stato rivendicato dal gruppo jihadista delle Brigate Abdullah Azzam. La televisione libanese Lbci riportato le dichiarazioni di uno dei portavoce del gruppo, affiliato ad Al Quaeda, Sirajeddine Zreikat che ha dichiarato che “la duplice operazione di martirio è stata portata a termine da due eroi sunniti libanesi”. In un messaggio su Twitter, il responsabile ha avvertito che gli attentati in Libano proseguiranno fino a quando il movimento Hezbollah non si ritirerà dalla vicina Siria.
Un messaggio chiaro che mostra in modo inequivocabile come la guerra civile siriana si stia estendendo anche nel vicino Libano, acuendo le tensioni tra sunniti e shiiti.
A far da eco alle bombe di Beirut, il giorno successivo, ben sette autobomba sono scoppiate in altrettanti quartieri di Baghdad, tutti a maggioranza shiita. Il bilancio è stato di 20 morti e 60 feriti.
Le esplosioni sono avvenute attorno alle sette e mezza di mattina nei quartieri di Sadriya, Karrada, Shaab, Tobchi, Azamiya e Amil. L’episodio più grave si è verificato a Sadriya, una zona abitata per lo più da sciiti, dove l’autobomba è esplosa nei pressi di un mercato popolare.
In Iraq l’ultima ondata di attentati e violenze era coincisa domenica con la festività religiosa dell’Ashura. In un solo giorno erano state uccise più di 40 persone. Secondo la Missione di assistenza dell’Onu in Iraq (Unami), dall’inizio dell’anno le vittime della guerra civile non dichiarata che continua a scuotere il paese sono state 5700.
A pochi mesi dalle elezioni legislative, in programma ad aprile, il governo dello sciita Nouri Al Maliki ha fatto incarcerare nella regione di Baghdad numerosi attivisti sunniti, accusati di appartenere a gruppi affiliati ad Al Qaida.
La grande partita mediorientale si gioca anche sulla pelle delle tante persone che vengono tritate in un infinito stillicidio di morti.
Il quadro delle alleanze sta subendo alcuni mutamenti inediti, che segnalano il riposizionamento dei maggiori attori sulla scena.
Le relazioni tra Stati Uniti e Israele sono al minimo storico, persino peggiori del 1982, quando Israele attaccò ed invase il Libano meridionale contro la volontà del potente alleato.
Israele sta facendo di tutto per inceppare il processo di pace tra Iran e Stati Uniti, che invece sta faticosamente andando avanti.
Gli Stati Uniti stanno cercando di ridefinire la propria posizione nell’area, smarcandosi progressivamente dall’ingombrante alleanza con i sauditi. Non è certo casuale che l’ammnistrazione Obama abbia annunciato un programma energetico che dovrebbe portare gli Stati Uniti ad una sostanziale autosufficienza nell’approvigionamento degli idrocarburi, che sarebbe limitata all’area del Nafta, la zona di libero scambio tra gli stessi Stati Uniti, il Canada e il Messico.
La decadenza dal ruolo di potenza mondiale assoluta e l’affermarsi di una stagione caratterizzata di un’estesa multipolarità spinge gli Stati Uniti ad evitare la contrapposizione secca con l’Iran, che oggi, grazie ad Hezbollah in Libano e alla situazione favorevole in Iraq, è molto più forte che in passato. Era dai tempi di Ciro il Grande che i persiani non avevano uno sbocco agevole sul Mediterraneo.
Nell’area lo scontro, che è anche confessionale, tra le aree a prevalenza shiita e quelle sunnite si sta intensificando. Ne sono il segno tangibile i morti di Beirut e Baghdad della scorsa settimana.
Ne abbiamo parlato con Stefano Capello.
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