27 novembre. Oggi il Senato ha votato la decadenza di Silvio Berlusconi. Il funambolo dalle mille risorse e dalle infinite trovate, capace di vendersi per oltre vent’anni meglio di una rock star, esce dalla scena parlamentare italiana.
Ne usce – e non paia un paradosso – da vincitore.
Il cavaliere ha calcato la scena politica con le qualità di un attore consumato, capace di interpretare più ruoli, di cogliere e, insieme, creare il clima più propizio. La metafora teatrale riassume con efficacia la parabola politica di chi ha traghettato il nostro paese dal Novecento dell’ideologia al secondo millennio del lunapark globale, tra la roulette russa della finanza e l’effimero perenne della merce.
Nella sua cassetta degli attrezzi tanto avanspettacolo anni Trenta, reinterpretato assorbendo gli umori di un paese, che a dispetto di bordelli e ruberie, o, meglio, grazie a bordelli e ruberie si è identificato e ancora si identifica in lui.
Una sinistra moralista senza alcun barlume di etica ne è stata risucchiata, frullata e risputata fuori a Sua immagine e somiglianza.
Tra un paio di settimane Matteo Renzi potrebbe essere il nuovo segretario del Partito Democratico, la formazione politica della seconda repubblica che più ha resistito all’omologazione alla politica post ideologica. Renzi non è l’uomo immagine del PD, Renzi è immagine pura, disincarnato più di un cartone animato ma vivo, vero e sexy come Jessica Rabbit. Perfetto per il ruolo.
Oggi indubbiamente preferito da chi gestisce le leve di una governance transnazionale che, già due anni fa, spinse per la fine anticipata del governo Berlusconi. Troppe clientele ed interessi da soddisfare per risultare ancora affidabile.
Il berlusconismo ha coinciso son la chiusura, anticipata ma non compiuta dal craxismo, del compromesso socialdemocratico ed il conseguente affermarsi di una democrazia autoritaria. Il rafforzarsi dell’esecutivo è andato di pari passo con l’affievolirsi del ruolo degli organismi rappresentativi ma, insieme, con il rafforzamento e autonomizzazione dell’apparato giudiziario.
Certo. Non tutti stanno al gioco. Le ultime consultazioni elettorali, dal Trentino alla Basilicata hanno fotografato un paese, dove più della metà di chi ne avrebbe diritto, va a votare. Negli anni Settanta erano meno del dieci per cento.
Se questo in se non può bastare ad invertire la rotta, è tuttavia un indicatore di un disagio profondo verso le dinamiche istituzionali, chiunque se ne faccia interprete.
L’info di radio Blackout ne ha discusso con Stefano Boni, antropologo e docente all’università di Modena e Reggio Emilia.
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