Nel CARA di Mineo sono ammassati oltre quattromila richiedenti asilo. La struttura di Mineo non ne potrebbe accogliere più di 2000. Venne aperta nel 2011 durante la guerra per la Libia per fare fronte all’ondata di profughi che approdarono a Lampedusa dopo l’attaco alla Libia. La rottura del trattato di cooperazione siglato dal governo italiano con quello libico riaprì la rotta verso Lampedusa, che la politica dei respingimenti di massa e della detenzione nelle prigioni di Gheddafi aveva chiuso per quasi due anni.
I CARA della penisola vennero vuotati per fare spazio ai nuovi arrivati, gli altri vennero concentrati a Mineo. Una soluzione perfetta per tutti. Perfetta per la ditta Pizzarotti di Parma, costruttrice e proprietaria del “Recidence Aranci”, vuoto da tempo dopo l’abbandono dei militari statunitensi di stanza a Sigonella per le cui famiglie era stato edificato. Perfetta per il governo che si toglieva le castagne dal fuoco. La società Pizzarotti non risuciva a venedere né affittare una struttura sorta in campagna, lontana dai centri abitati, lontana dagli sguardi, il governo aveva proprio bisogno di un posto così.
Dopo due anni la situazione è esplosiva. Pochi giorni fa si è tolto la vita un ragazzo eritreo, stanco di attendere un pezzo di carta che lo autorizzasse a ri-cominciare la sua vita interrotta dalla guerra, dalla diserzione, dal deserto, dai trafficanti di uomini, dai guardiani delle frontiere. La Commissione territoriale per la valutazione delle richieste di asilo venne installata a due mesi dall’apertura del maxi CARA di Mineo, dopo una prima rivolta degli immigrati.
Le cooperative che gestiscono la struttura, tra queste la Sisifo di Lampedusa, la stessa nell’occhio del ciclone per la pulizia etnica di Lampedusa, praticano la politica del “divide et impera”, spacciandola come autogestione da parte dei reclusi su base etnica. Di fatto i “rappresentanti” individuati dai gestori sono una sorta di kapò che fanno la spia e cercano di impedire l’unità tra i rifugiati. In cambio godono del privilegio di vivere in villette più grandi, pulite con ampi spazi a disposizione.
Mercoledì 18 nella struttura viene fatta un’assemblea cui partecipano anche gli antirazzisti catanesi, che promuove una protesta per il giorno successivo.
Giovedì 19 circa mille uomini, donne, bambini danno vita ad una lunga giornata di lotta. Tra i tanti cartelli e striscioni uno ricorda il giovane eritreo morto suicida la settimana precedente.
All’alba viene bloccata la Statale 417 che collega Catania e Gela. I blocchi sono due: uno sulla 417, l’altro in direzione di Mineo. I manifestanti vogliono andare a Catania, che però dista 40 chilometri. Troppa strada specie per i bambini. I rifugiati decidono di muoversi verso Palagonia: prima della cittadina la polizia li blocca. Parte una sassaiola, la polizia risponde con lacrimogeni. Un profugo eritreo viene arrestato e trasferito ai domiciliari nel CARA.
I profughi ce la fanno ad arrivare in paese, dove viene loro promesso un intervento.
Le associazioni antirazziste concordano una tregua di qualche giorno per esaminare le proposte fatte.
Venerdì 20 dicembre.
Anarres ne ha parlato con Alfonso di Stefano della rete antirazzista catanese.
In chiusura di collegamento è arrivata la notizia che i profughi erano nuovamente scesi in strada. Stanchi di promesse non erano più disponibili ad attendere una risposta, che secondo le stesse leggi, dovrebbe arrivare entro 35 giorni.
Centinaia di immigrati hanno nuovamente bloccato con grossi massi le strade statali 417 e 385.
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