La scorsa settimana la RAI ha mandato in onda in due puntate la prima di tre miniserie dedicate agli anni Sessanta e Settanta. In primo piano, ormai pronto per la santificazione, il Commissario Luigi Calabresi, protagonista nella caccia all’anarchico che segnò il 1969, l’anno delle lotte operaie e studentesche che si chiuse con la strage alla banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, l’arresto dell’anarchico Vapreda, l’assassinio nei locali della questura meneghina di un altro anarchico, il ferroviere Giuseppe Pinelli.
In molti hanno sottolineato la cialtroneria di un lavoro segnato da errori palesi, anacronismi, oltre ad un mare di falsità. Quello che conta è tuttavia ben altro.
La fiction scritta e diretta da Graziano Diana è l’ennesima operazione revisionista su una vicenda, che, nonostante i 44 anni trascorsi, ancora turba i tutori dell’ordine costituito e i loro corifei.
La storia di una strage pensata e voluta nei piani alti delle istituzioni democratiche, spaventate dall’estendersi e dal radicarsi delle lotte di quegli anni, ci parla della criminlità del potere. Una criminalità di Stato che non esita di fronte a nulla: le bombe, i corpi dilaniati, le accuse false agli anarchici, la repressione feroce.
Tutto perfetto. Ma non funzionò.
Gli uomini e le donne che in quell’anno cruciale della nostra storia avevano riempito le piazze, occupato fabbbriche e università, spezzato le fondamenta dell’ordine gerarchico, fatto a pezzi le relazioni di dominio sul lavoro e nelle case, non prestarono fede alle parole urlate dalle pagine dei giornali, alle verità confezionate nell’ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno. Sin dal giorno dei funerali dei morti di piazza Fontana, le tesi ufficiali vennero contestate: tanti erano consapevoli che quella strage, la prima di tante, era contro chi in quei mesi voleva farla finita con la pax socialdemocratica per costruire relazioni politiche e sociali all’insegna di libertà e uguaglianza.
Dopo 40 anni lo Stato ha deciso che quella memoria andava spezzata, ridotta in poltiglia, mettendo insieme vittime e carnefici. Protagonista fu Giorgio Napolitano, il presidente che volle l’incontro tra la vedova di Pino Pinelli e quella di uno dei suoi assassini, Luigi Calabresi, il “commissario Finestra”, come lo chiamarono allora.
La fiction di Diana come i libri di Cucchiarelli e il film che ne trasse Giordana sono i tasselli di un puzzle il cui disegno è sin troppo chiaro.
La crisi che morde la vita di tanti, di troppi, una classe politica che non riesce nemmeno a nascondere sotto il tappeto ruberie e malefatte, la dura repressione che colpisce chi lotta contro lo Stato e il capitalismo.
Con Massimo Varengo, compagno milanese, testimone diretto di quegli anni, abbiamo fatto una lunga chiacchierata, per riallacciare il fili di una memoria sempre più spezzata, per capire perché quella vecchia storia in bianco e nero turbi tanto i potenti di oggi.
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