Gli scenari libanesi sembrano delineare una nuova guerra civile, lunga e feroce come quella che scosse il paese dal 1975 al 1990. Nella zona di Tripoli si moltiplicano gli scontri tra sunniti da una parte, sciiti e alawiti dall’altra, una sorta di prolungamento del conflitto sempre più feroce che scuote la vicina Siria da oltre due anni.
Il paese dei cedri è come una mappa miniaturizzata delle crescenti tensioni che segnano il quadro geopolico dall’Iran all’Arabia Saudita.
Uno scacchiere sempre più confuso nel quale alcuni attori giocano su più piani.
L’Iran e il vicino Iraq, a sua volta scosso da un’impressionante serie di attentati dinamitardi, sono alleati della Siria di Bashar el Hassad a sua volta appoggiata dagli hezbollah sciiti libanesi. Il campo sunnita, che sostiene attivamente le formazioni salafite che hanno da tempo preso il controllo dell’esercito libero di Siria, sono a loro volta divise tra quelle vicine al Qatar e alla Turchia nello stile della Fratellanza musulmana, e le formazioni wahabite quaediste, sostenute dall’Arabia Saudita. Sullo sfondo, ma certo di gran peso, lo scontro tra Stati Uniti e Russia per garantirsi il controllo di un’area strategica per l’approvigionamento e la distribuzione energetica.
Nei campi profughi del paese la situazione è durissima. Migliaia di persone vivono in tende leggere, senza protezione dalla pioggia e dalla neve, che, anche qui, cade copiosa in montagna. Spesso non c’é né acqua corrente, né elettricità, ne bagni.
La maggior parte dei profughi fugge le persecuzioni di Hassad: una minoranza fa parte dei lealisti, ancor meno sono i laici democratici nemici sia di Hassad sia delle formazioni islamiste.
Si sentono abbandonati, dimenticati e hanno voglia di far sapere all’esterno quello che hanno subito.
Giacomo, un compagno livornese, è tornato dal Libano martedì 21 gennaio, dopo ha fatto un lungo giro per capire e toccare con mano la situazione. Dopo una breve visita a Beirut, è stato nella zona di Tripoli e in alcuni campi profughi, dove le condizioni di vita sono terribili. Tanti, sfuggiti a bombe e torture, muoiono di freddo e malattie.
Vi proponiamo di seguito un suo articolo nel quale ci racconta la situazione di un paese.
Il Libano, una piccola striscia di terra che si affaccia sul mediterraneo, stretta tra la Siria ed Israele.
Un paese che, dopo l’indipendenza del 1943, ha conosciuto un forte squilibrio politico e sociale a causa delle conflittualità tra le diverse entità politiche locali, legate al variegato e complesso quadro di comunità religiose presenti nel paese, in particolar modo componenti cristiane e musulmane. Uno scontro che si è aggravato negli anni 70′ con le continue rappresaglie israeliane all’interno del paese, dovute alla presenza massiccia nel territorio di profughi palestinesi; violenze che hanno prodotto ulteriori divisioni in un contesto già di per sé fragile, trascinando il paese in una violenta guerra civile, protrattasi per più di trent’anni. Un territorio che ha sempre visto l’ingerenza estera come fattore di alta destabilizzazione interna, riflesso di vari tornaconti religiosi Medio orientali e terreno fertile per giochi politici internazionali.
Ad oggi infatti il paese dei cedri, dopo tre invasioni Israeliane ed i continui sussulti interni, non conosce alcuna tregua per la vicinanza della Siria, lacerata da una sanguinosa guerra civile dal 2011. Una guerra che travalicato i confini da ormai più di un anno, riproducendovi lo storico scontro tra sciiti, oggi sostenitori del presidente siriano Assad, e sunniti, legati alla variegata galassia dell’opposizione al governo di Damasco.
Nel 2012, quando misi piede per la prima volta in Libano, nella città di Beirut ed in prossimità dei confini con la Siria, si notavano i primi esodi di siriani in fuga dalla guerra civile. La situazione di precaria tranquillità del paese dopo la crisi politica del 2006, venne quasi di colpo interrotta dalle prime avvisaglie di scontri al nord direttamente legati al conflitto siriano. Questo fu l’inizio ad un escalation di violenze sino alla tragica crisi odierna tra autobombe e cecchini delle varie milizie. In questa mia seconda visita in Libano per osservare la situazione da vicino, il numero dei profughi siriani in fuga dalla guerra verso il territorio libanese è aumentato vertiginosamente.
L’esercito è stato chiamato in causa da un governo fantasma per intervenire militarmente nella città di Tripoli per sedare l’inasprimento del conflitto tra la comunità alawita (legata alla galassia sciita di cui fa parte anche il presidente siriano Assad) e quella sunnita. La città è in preda alle violenze settarie che non si placano neanche con l’occupazione delle forze militari governative, con il rischio che esse aprano un terzo fronte per la loro posizione politica all’interno della città settentrionale. Dall’appartamento a Tripoli dove sono stato ospitato, il frastuono delle granate ed il continuo “scambio di favori” tra le due fazioni si sentono con insistenza, soprattutto durante le ore notturne, mentre in alcune zone della città fortissimo è il rischio di finire sotto il fuoco dei cecchini o di essere colpiti da proiettili vaganti.
Non migliore è la situazione dei campi profughi siriani che ho deciso di visitare: quello di Arsal, nella valle della Beqaa al confine nord orientale con la Siria e quello di Akkar, sul fronte settentrionale.
La situazione più tragica è nel campo profughi di Arsal, sito in prossimità del centro cittadino, un’enclave sunnita in una zona circondata da villaggi a prevalenza sciita, nei quali Hezbollah spadroneggia. Il giorno precedente al mio arrivo nel campo, alcuni razzi dalla Siria erano caduti sulla città, provocando numerose vittime tra la popolazione locale. La già complicata situazione della zona di confine, dove sovente si manifestavano gli strascichi della guerra siriana, si è così inasprita, provocando terrore tra la popolazione siriana in fuga, già traumatizzata dalle violenze della guerra in patria.
La zona del campo da me visitata vede la presenza di una struttura d’educazione per bambini, nella quale alcuni operatori di un’associazione non governativa internazionale prestano un supporto psicologico ed educativo. Quest’area è suddivisa in zone differenti nelle quali le strutture basilari sono gestite con i fondi stanziati dal Qatar e dall’Onu; in altre zone le persone si accampano come possono oppure occupano edifici abbandonati, nel totale disinteresse del governo nazionale che non ha provveduto alla creazione di campi ufficiali. Circolando per il campo vengo spesso bloccato da molte persone che vogliono esprimermi la loro rabbia per le condizioni di vita nelle quali sono costrette a vivere, soprattutto nella parte gestita con fondi Onu. Mi raccontano che dopo una prima ondata di aiuti arrivata nel 2013, oggi si sentono completamente abbandonati. Alcuni profughi mi mostrano che nel campo manca l’energia e l’acqua ed in alcune tende poste al di fuori del piccolo edificio scolastico, si vive in undici in uno spazio adibito per cinque persone. Nella zona gestita dall’Onu, per settecento persone ho contato solamente quattro bagni all’aperto ed una sola struttura adibita a docce, nella quale viene gettato ogni tipo di rifiuto, in assenza d’altro spazio. Arsal si trova a 1500 m sopra il livello del mare ed il freddo a queste altitudini ed in condizioni di vita simili, si fa davvero sentire. I problemi legati alla neve non mancano. Sulle tende si accumula la neve producendo una refrigerazione naturale dell’ambiente interno che diviene invivibile e rischia di lasciar morire congelate centinaia di famiglie. Le persone che abitano il campo provengono principalmente dalle città di Qseir, Homs e Qalamon dove negli ultimi giorni la battaglia tra le milizie ribelli e quelle lealiste si è fatta durissima. Sotto il fragore delle bombe che esplodono oltre il confine, risuonano nell’aria le parole dei profughi contro il governo Assad. L’odio nei confronti della guerra e l’insofferenza verso qualsiasi violenza perpetuata dall’interminabile conflitto, hanno comunque la prevalenza su ogni settarismo. Molti profughi mi spiegano che, al di fuori del campo di Arsal, tra le persone che scappano dalla Siria vi sono anche soggetti che sostengono il presidente Assad e che, a causa del deteriorarsi della situazione, sono fuggiti. Hezbollah stesso, impegnato in azioni di guerra in territorio siriano al fianco di Assad, ha fornito con le sue organizzazioni affiliate, alcuni aiuti umanitari a profughi siriani, soprattutto nel sud del Libano. Parlando con alcuni volontari della situazione in Siria e nei campi profughi, ottengo qualche informazione sulla situazione odierna del movimento d’opposizione al presidente siriano.
Il movimento di protesta nato dalle piazze di alcune città siriane ed inizialmente formato da una componente fortissima di laici e cosiddetti “democratici” è quasi del tutto scomparso. Molti che inizialmente avevano posto fiducia in un movimento antiautoritario e spontaneo sono stati messi da parte o si sono defilati, per l’imporsi della componente jihadista nell’enorme galassia dell’opposizione: un grande mosaico di gruppi dove la componente islamica, nelle sue varianti sunnite, è ben radicata.
Ritorno a Tripoli tra esplosioni di granate e colpi di rpg che spezzano il silenzio della notte nelle strade semideserte della città. Mi tornano alla mente le immagini disastrose del campo profughi di Arsal e le parole di un ragazzo davanti ad una vecchia tenda dell’UNHCR recuperata dal passato. Frasi che raccontano un Libano imbottito d’una polvere violenta che si ripresenta quotidianamente e fatica ad andarsene via, come accade da sempre sul tessuto di quel telo martoriato, sotto il quale continua a vivere la sofferenza.