“La Svizzera ci accolse a braccia chiuse”. Così l’incipit di una vecchia canzone di migranti italiani nel paese elvetico.
La recente consultazione che ha reintrodotto le quote di ingresso per gli immigrati pare riportare indietro le lancette dell’orologio.
Le dinamiche, soprattutto culturali, che hanno permesso la vittoria, sia pure di misura, delle istanze dei partiti di destra, sono tuttavia molto differenti.
I sì alla chiusura delle frontiere hanno toccato quote vicine al 70% nelle zone di frontiera con l’Italia e la Germania, come il Ticino e la Turgovia. Il provvedimento colpisce soprattutto gli immigrati dai paesi UE, che sinora godevano della possibilità di circolare liberamente in Svizzera.
L’esito della consultazione mette in difficoltà la Svizzera, pressata dagli imprenditori, cui fa comodo la manodopera a poco prezzo e incalzata dall’UE che promette ritorsioni.
L’Unione Europea, per bocca della presidenza greca, ha detto chiaro alla Svizzera che non può prendersi il bambino e buttare l’acqua sporca. Gli accordi bilaterali sottoscritti da Berna prevedono infatti sia la libera circolazione del capitali che degli esseri umani. Colpisce che un rappresentante dell’Europa di Schengen, dell’Europa fortezza, rinfacci alla Svizzera l’arroccamento nel proprio castello montano. “Si è sempre i terroni di qualcun altro”, questa verità, scriveva ieri sulle pagine del Manifesto “Alessandro Dal Lago” è dimostrata dal voto svizzero.
La vittoria degli xenofobi, sia pure di misura, è frutto della paura dell’ignoto, del timore che l’attuale benessere possa finire, che le frontiere siano barriere dietro cui difendersi.
Le dinamiche della globalizzazione sinora hanno favorito la Svizzera, tuttavia la consapevolezza che scelte di delocalizzazione e deindustrializzazione potrebbero non ignorare i cantoni di quest’angolo di Europa, genera mostri.
Il paragone più immediato è con la Lega Nord, il cui massimo consenso, specie in Lombardia e Veneto è stato raccolto prima della crisi, quando l’economia del nord est, tra iperfruttamento di lavoratori immigrati e basso livello tecnologico, andava ancora a gonfie vele, assurgendo a paradigma dell’operosità padana, contrapposta all’indolenza meridionale.
Paradigmi razzisti che non hanno retto alla crisi, ma si sono nutriti di una paura che mirava all’immigrato, perché il popolo “leghista” non poteva certo smontare il meccanismo capitalista, perché avrebbe significato azzannare il proprio stesso cuore.
Oggi in Ticino la crescita di medie e piccole aziende è conseguenza e non causa dei bassi salari dei lavoratori provenienti dalla Lombardia. Immigrati giovani o frontalieri, che in Svizzera lavorano ma non risiedono, fanno girare più veloci gli ingranaggi del paese, versando contributi, che sono linfa vitale in un paese in cui l’età media è decisamente elevata.
Negli anni Settanta vi era un razzismo volgare ed esplicito. Come dimenticare le scritte nei bar di Zurigo “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”?
Oggi siamo di fronte ad un atteggiamento più genericamente xenofobo, di arroccamento identitario, nei confronti di “un’invasione” che metterebbe a repentaglio sicurezze e valori acquisiti.
La spinta all’esclusione si è rinforzata intrecciandosi con il tema squisitamente ecologista della difesa del territorio dalla cementificazione.
La Svizzera profonda, impregnata di miti pastorali, di purezza dell’aria e dei costumi alza un muro. Contro la propria paura.
Ascolta le dirette realizzate dall’info di Blackout con Peter Schrembs del circolo “Carlo Vanza” di Lugano e con Alessandro Dal Lago docente all’Università di Genova.