Due lettere. Da entrambe traspare una sorta di preoccupazione per le sorti della “democrazia”, tradita, in pericolo, da difendere. Ai tempi dei regimi totalitari in Unione Sovietica venne coniata l’espressione “comunismo reale”, per segnare lo iato profondo tra immaginazione e realtà.
La democrazia, e non da oggi, vive di questo stesso iato, vive nell’illusione che vi sia un’altra democrazia possibile. Un’illusione pericolosa, perché l’unica democrazia è quella reale. Quella che priva della libertà quelli che non ci stanno, quelli che non voltano lo sguardo altrove. Come scrivono, nella loro bella lettera, i familiari dei quattro compagni in carcere con l’accusa di terrorismo.
Leggetela. Ne vale la pena.
Leggete anche quella degli avvocati. Anche qui uno jato, un fossato invalicabile tra i principi altisonanti della Corte Europea di Giustizia e la realtà dell’isolamento, della tortura quotidiana del carcere.
Se volete provare a far pressione qui trovate gli indirizzi.
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In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone arrestate il 9 dicembre con l’accusa, tutta da dimostrare, di aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell’assalto è stato danneggiato un compressore, non c’è stato un solo ferito. Ma l’accusa è di terrorismo perché “in quel contesto” e con le loro azioni presunte “avrebbero potuto” creare panico nella popolazione e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d’immagine. Ripetiamo: d’immagine. L’accusa si basa sulla potenzialità di quei comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato di terrorismo colposo, l’imputazione è quella di terrorismo vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria di tutti corre spontanea: le stragi degli anni 70 e 80, le bombe sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane, grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli, che uccideva, che, appunto, terrorizzava l’intera popolazione. Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose, hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo. Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso i loro siti. E’ forse questa la popolazione che sarebbe terrorizzata? E può un compressore incendiato creare un grave danno al Paese?
Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all’improvviso terroristi per danno d’immagine con le stesse pene, pesantissime, di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. E’ un passaggio inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall’alto potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d’immagine. E’ la libertà di tutti che è in pericolo. E non è una libertà da dare per scontata.
Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l’isolamento, due ore d’aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate, arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro e in alcuni casi l’isolamento totale. Tutto questo prima ancora di un processo, perché sono “pericolosi” grazie a un’interpretazione giudiziaria che non trova riscontro nei fatti.
Questa lettera si rivolge:
Ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino il loro compito di informare, perché valutino tutti gli aspetti, perché trovino il coraggio di indignarsi di fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché, secondo l’accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe stato presente quando è stato fatto..
Agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce. Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche spicciolo dall’Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista.
Alla società intera e in particolare alle famiglie come le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha bisogno di noi.
Grazie
I familiari di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò
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Chiara Zenobi, Claudio Alberto, Niccolò Blasi e Mattia Zanotti, i giovani No Tav arrestati all’inizio di dicembre 2013 e accusati dell’assalto al cantiere dell’alta velocità di Chiomonte, avvenuto il 13-14 maggio 2013, sono stati trasferiti nelle scorse settimane dal carcere di Torino nei reparti ad Alta sicurezza delle case circondariali di Roma, Ferrara e Alessandria.
Il regime detentivo a cui sono attualmente sottoposti è più rigido rispetto a quello previsto per gli altri detenuti in regime di Alta sicurezza, che prevede già, come è noto, una forte attenuazione delle opportunità trattamentali ed un regime di socialità specifico e più ridotto rispetto a quello dei detenuti definiti “normali”.
Nessuno di loro ha la possibilità di avere colloqui con i rispettivi conviventi. La loro posta in entrata e uscita è sottoposta a censura.
Nonostante fino a poche settimane si incontrassero regolarmente in sezione e ai colloqui con i difensori, Blasi e Zanotti hanno attualmente un divieto di incontro tra loro. Questo divieto ha come conseguenza una sensibile riduzione delle loro ore d’aria (visto che sono costretti a farle a turno), che da sei sono diventate tre.
Claudio Alberto si trova nella situazione più preoccupante.
A causa del divieto di incontro con due dei tre detenuti presenti nella sezione ad Alta sicurezza, e della scelta del terzo di svolgere la socialità unitamente agli altri due, Claudio Alberto, dalla data del suo trasferimento, avvenuto a fine gennaio, si trova in una situazione di completo isolamento, tanto più grave se si pone mente alla sua giovane età e alla circostanza che si tratta della sua prima esperienza carceraria.
In più occasioni la Corte europea dei diritti dell’uomo e il Comitato europeo per la prevenzione contro la tortura hanno sostenuto che l’isolamento carcerario, in considerazione della grave sofferenza psichica che ne deriva, può configurare un un trattamento inumano e degradante che viola l’art. 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Perché ciò non si verifichi, tale misura deve essere contenuta nel tempo (non superare mai i 14 giorni) , essere giustificato da comportamenti straordinari e specifici del soggetto e non essere totale, vale a dire che non è possibile vietare al detenuto qualsiasi contatto sociale con gli altri soggetti ristretti in carcere.
L’isolamento e le altre restrizioni a cui sono sottoposti i nostri assistiti vengono giustificate dalla Procura di Torino con ragioni investigative, che, peraltro, nessuna autorità giudiziaria si è preoccupata di vagliare e verificare.
Ma l’ordinamento penitenziario, all’art. 33, ammette l’isolamento degli imputati solo durante la fase delle indagini. Nel nostro caso, le indagini sono da tempo concluse e gli imputati sono stati già rinviati a giudizio per il dibattimento, fissato per il prossimo 14 maggio.
Il regime detentivo a cui sono attualmente sottoposti gli imputati si risolve in un inasprimento generalizzato del grado di afflittività della misura cautelare a loro imposta e in una compressione dei loro diritti, in contrasto con l’insegnamento della Corte di cassazione, che ha più volte affermato come sia “principio di civiltà che a colui che subisce una restrizione carceraria … sia garantita quella parte di diritti della personalità che neppure la pena detentiva può intaccare”.
Torino – Milano 19 febbraio 2014.
Avvocati Eugenio Losco, Claudio Novaro, Giuseppe Pelazza