Leggere le carte dei pubblici ministeri non è uno sport dei più appassionanti. Tuttavia a volte nelle argomentazioni proposte con grazia e stile da inquisitori, appare l’ordine di un discorso, che i più credono sepolto sotto le macerie della Bastiglia. Il discorso del potere che ri-assume nella sua interezza l’assolutismo della regalità. È assoluto, perché sciolto da ogni vincolo, perché nega legittimità ad ogni parola altra.
Lo fa con la leggerezza di chi sa che l’illusione democratica è tanto forte da coprire come nebbia fitta un dispositivo, che chiude preventivamente i conti con ogni forma di opposizione, che non si adatti al ruolo di mera testimonianza.
Corollario di questo dispositivo la delega politica all’apparato giudiziario delle questioni che l’esecutivo non è in grado di affrontare.
L’abolizione per un vizio formale della legge sulle droghe in vigore da ormai otto anni, la dice lunga sul ruolo suppletivo del potere giudiziario rispetto a quello politico.
Questa decisione, come già quella sul porcellum elettorale, toglie le castagne dal fuoco sia al parlamento che all’esecutivo, incapaci di prendere decisioni su questioni di grande importanza come la legge che definisce le regole per la delega elettorale.
La delega alla magistratura della questione No Tav, ha in se ben di più della rinuncia a legiferare su alcuni temi di un parlamento senza una maggioranza definita.
Provate ad immaginare.
Immaginate che il governo dichiari che chi si oppone alla Torino Lyon è un terrorista. È lecito ritenere che persino i quotidiani più asserviti agli enormi interessi che si raggrumano intorno alle grandi opere non oserebbero avallare tout court una tesi così espressa.
Quando lo fa la magistratura l’operazione passa inosservata. O quasi.
È successo a Torino con l’arresto e il rinvio a giudizio di quattro No Tav accusati di terrorismo.
Leggere le carte della Procura diventa un esercizio indispensabile per cogliere la genealogia di un meccanismo disciplinare, che va ben oltre il singolo procedimento penale.
Si scopre che la mera professione di opinioni negative sugli accordi per la realizzazione della nuova linea ad alta velocità tra Torino e Lyon crea il “contesto” sul quale viene eretta l’impalcatura accusatoria che trasforma il danneggiamento di un compressore in un attentato. Un attentato con finalità terroriste.
Qualcuno in piemontese potrebbe commentare: “esageruma nen! – non esageriamo!”. La prima impressione è che la Procura abbia dilatato un episodio banale, per mandare un segnale forte al movimento No Tav, ma che, secondo il buon senso, la loro accusa non abbia gambe per camminare.
Attenzione. Il teorema dei due PM, Antonio Rinaudo e Andrea Padalino, affonda le radici in un insieme di norme che danno loro amplissimo spazio di discrezionalità.
Vediamo come.
14 maggio 2013. Un gruppo di No Tav compie un’azione di sabotaggio al cantiere di Chiomonte.
Quella notte venne danneggiato un compressore. Un’azione di lotta non violenta che il movimento No Tav assume come propria.
Nonostante non sia stato ferito nessuno, gli attivisti sono stati accusati di aver tentato di colpire gli operai del cantiere e i militari di guardia. Una follia. una lucida follia.
14 maggio 2014. Quattro attivisti verranno processati per quell’azione. L’accusa è “attentato con finalità di terrorismo”. Lo Stato mette in scena un rituale di grande violenza simbolica, scegliendo il primo anniversario di quella notte di lotta per affermare la propria forza.
Non solo. I quattro compagni arrestati il 9 dicembre, dopo 40 giorni nel reparto di alta sorveglianza del carcere delle Vallette, vengono trasferiti in altre prigioni.
Mattia e Nicolò ad Alessandria, Claudio a Ferrara, Chiara a Roma. Le condizioni di detenzione loro inflitte sono molto pesanti, più di quello che il regime duro cui sono sottoposti prevede.
I riti di un potere sciolto da qualunque vincolo divengono un monito per tutti coloro che li appoggiano e potrebbero seguirne l’esempio.
Come si trasforma un’azione di sabotaggio in un atto terrorista?
L’ordinamento mette a disposizione delle procure l’articolo 270 sexies, l’ultima incarnazione del famigerato 270, l’articolo che descrive i reati associativi di natura politica. Dal 270 sexies i PM torinesi hanno desunto la definizione di terrorismo sulla quale hanno incardinato l’imputazione contro i quattro No Tav arrestati il 9 dicembre. Per questa norma “sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto (…)”.
Il Tribunale del riesame motiva così la decisione di mantenere in carcere i quattro attivisti No Tav: “È ravvisabile la finalità di terrorismo tenuto conto che l’azione è idonea, per contesto e natura, a cagionare grave danno al Paese, ed è stata posta in essere allo scopo di costringere i pubblici poteri ad astenersi dalla realizzazione di un’opera pubblica di rilevanza internazionale”.
Questa argomentazione ricalca il 270 sexies, introducendo un elemento cruciale, perché chiunque si opponga concretamente ad una decisione dello Stato italiano o dell’Unione Europea rischia di incappare nell’accusa di terrorismo.
Queste ragioni oggi valgono per quattro No Tav, domani potrebbero valere per chiunque lotti contro le scelte non condivise, ma con il suggello della regalità imposto dallo Stato Italiano.
Fermare il Tav, costringere il governo a tornare su una decisione mai condivisa dalla popolazione locale è la ragion d’essere del movimento No Tav.
Ogni gesto, ogni manifestazione, ogni passeggiata con bimbi e cagnolini, non diversamente dalle azioni di assedio del cantiere, di boicottaggio delle ditte, di sabotaggio dei mezzi mira a questo scopo.
Con questa logica gran parte della popolazione valsusina è costituita da terroristi. E con loro i tanti che, in ogni dove, ne hanno condiviso motivazioni e percorsi.
Non serve molta immaginazione per capire cosa accadrebbe se il teorema dei PM torinesi dovesse essere accolto.
Ma…
La Procura torinese va oltre. Non si accontenta di equiparare le lotte al terrorismo, pretende di dimostrarlo.
Come gli inquisitori che tormentavano Winston, il protagonista del Grande Fratello orwelliano, la più modesta e pasticciona coppia di PM torinesi, non si accontenta di piegare il proprio nemico, vuole che la verità di Stato venga sancita dalle aule del tribunale.
Rinaudo&Padalino vogliono provare che la vittoria dei No Tav, la cancellazione della nuova linea tra Torino e Lyon, la rinuncia al progetto possano “arrecare grave danno ad un Paese”.
Nel farlo scendono con ineffabile sicumera su un terreno molto scivoloso.
La nozione di “grave danno” per un intero “Paese” suppone che vi sia un “bene pubblico”, un “interesse generale” che verrebbe irrimediabilmente leso se l’opera non si facesse.
Questo significa che il Tav deve necessariamente rientrare nell’interesse generale. Ma cosa definisce l’interesse generale, cosa costituisce il bene pubblico? Per i due PM la risposta è ovvia, quasi una tautologia: quello che un governo decide, gli accordi che stringe, gli impegni che si assume in nome di tutti. Nelle carte con cui sostengono l’accusa di terrorismo fanno un lungo elenco di prese di posizione, trattati che dimostrerebbero la loro tesi.
In altre parole la ragion di Stato e il bene pubblico coincidono, chi non è d’accordo e prova a mettersi di mezzo è un terrorista, nonostante attui una pratica non violenta, contro l’imposizione violentissima di un’opera non condivisa dalla gran parte della popolazione valsusina.
Vent’anni di studi, informazione, conoscenza capillare del territorio e delle sue peculiarità, le analisi sull’incidenza dei tumori, sulla presenza di amianto, sull’inutilità dell’opera non hanno nessuna importanza.
Un potere assoluto, sciolto da ogni vincolo di rappresentanza, foss’anche nella forma debole della democrazia delegata, prova a chiudere la partita nelle aule di tribunale.
Ne va della libertà di tutti. Persino della libertà di pensare ed agire secondo i propri convincimenti.
La ragion di Stato diviene il cardine che spiega e giustifica, il perno su cui si regge il discorso pubblico. La narrazione della Procura si specchia in quella offerta dai vari governi, negando spazio al dissenso.
Non potrebbe essere altrimenti. Le idee che attraversano il movimento No Tav sono diventate sovversive quando i vari governi hanno compreso che non c’era margine di mediazione, che una popolazione insuscettibile di ravvedimento, avrebbe continuato a mettersi di mezzo.
In questi anni, di fronte alle manifestazioni più nette della criminalità del potere tanti hanno parlato di “democrazia tradita”. Una illusione. Una illusione pericolosa, perché ha in se l’idea che questo sistema sia correggibile, che la violenza delle forze dell’ordine, la ferocia della macchina delle espulsioni, l’inumanità delle galere, la tortura nelle caserme, i pestaggi nei CIE e per le strade, le facce spaccate dai manganelli, le gole bruciate dai lacrimogeni, i lavoratori che muoiono di lavoro, i veleni che ammorbano la terra siano eccezioni, gravi, estese, durevoli ma eccezioni. La democrazia avrebbe in se gli anticorpi per eliminare i mali che la affliggono, per correggere la rotta, costruire partecipazione nella libertà.
L’introduzione nell’ordinamento di norme come il 270 sexies e il suo utilizzo contro attivisti No Tav è lo specchio di una democrazia che lungi dall’essere tradita, tradisce la propria intima natura, (di)mostra che l’unica possibilità offerta al dissenso è la testimonianza ineffettuale.
Chi disapprova le scelte del governo, delle istituzioni locali, delle organizzazioni padronali e dei sindacati di Stato rischia sempre più di incappare nelle maglie della magistratura, perché le tutele formali e materiali che davano qualche spazio al dire e al fare, sono state poco a poco annullate.
Le Procure hanno un ruolo sempre più forte nel disciplinamento dell’opposizione politica e sociale.
Non hanno neppure cambiato le leggi: è bastato un uso disinvolto di quelle che c’erano. Una violenta torsione del diritto per ottenere anni di carcere e lunghe detenzioni preventive.
Reati da tempi di guerra come “devastazione e saccheggio”, l’utilizzo di fattispecie come “associazione sovversiva”, “violenza privata”, “associazione a delinquere”, “resistenza a pubblico ufficiale”, “vilipendio” della sacralità delle istituzioni sono le leve potenti utilizzate per colpire chi agisce per costruire relazioni all’insegna della partecipazione, dell’eguaglianza, della libertà.
La rivolta ultraventennale della Val Susa è per lo Stato un banco di prova della propria capacità di mantenere il controllo su quel territorio, fermando l’infezione che ha investito tanta parte della penisola.
Allo Stato non basta vincere. Deve chiudere la partita per sempre, spargere il sale sulle rovine, condannando i vinti in modo esemplare.
Da ormai quasi tre anni siamo in guerra. L’occupazione militare della Maddalena, le recinzioni di cemento e acciaio, il filo spinato, i soldati che alternano un turno in Clarea con uno in Afganistan ne costituiscono la materialità. In rapporto alla popolazione ci sono più uomini e donne in armi in Val Susa che ad Herat.
Presto dovranno allargarsi, piazzare le recinzioni e il filo spinato, costruire gli alloggiamenti per le truppe nella piana di Susa, per sbancare l’autoporto e costruire il cantiere per il tunnel mostro di 57 chilometri, il core business del grande affare della Torino Lyon.
L’osmosi tra guerra e politica è totale. La guerra interna non è la mera prosecuzione della politica con altri mezzi, una rottura momentanea delle usuali regole di mediazione, la guerra è l’orizzonte normale. In guerra o si vince o si perde: ai prigionieri si applica la legge marziale, la legge dei tempi di guerra.
In ballo non c’è solo un treno, non più una mera questione di affari. In ballo c’é un’idea di relazioni politiche e sociali che va cancellata, negata, criminalizzata.
Tra i No Tav non c’è un modello preciso, non c’è neppure una generale spinta rivoluzionaria che oltrepassi, frantumandolo, il mondo in cui siamo forzati a vivere.
Non è stata nemmeno abbandonata la pratica del voto, anche se tanti non votano e per chi lo fa, non è che un modo per rallentare una corsa che solo l’azione diretta popolare può fermare davvero.
C’è tuttavia una consapevolezza diffusa, maturata nelle assemblee, nelle nottate ai presidi, nella materialità della lotta che costruire percorsi di libertà, giustizia sociale, solidarietà è davvero possibile. Lo abbiamo vissuto in quella breve frattura della norma statuale delle Libere Repubbliche di Venaus e Maddalena, lo viviamo in quella prolungata vacanza dall’istituito, che ci siamo scavati in anni di lotta che hanno mutato le relazioni quotidiane, la pratica politica, le prospettive per il futuro.
Quando il tribunale del Riesame di Torino tira in ballo la nozione di “contesto” per giustificare un’accusa di terrorismo, lo fa a ragion veduta, in Val Susa spira un vento pericoloso, un vento di sovversione e di rivolta.
Intendiamoci. Lo Stato non ha paura di chi, di notte, con coraggio, entra nel cantiere e brucia un compressore. Lo Stato sa tuttavia che intorno ai pochi che sabotano c’é un’intera valle.
Maria Matteo
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)