Forse alla fine il giudice Gerardo D’Ambrosio, recentemente scomparso, sconterà la sentenza con cui prosciolse Calabresi e gli altri poliziotti della Questura di Milano dall’accusa di aver torturato ed ucciso l’anarchico Pinelli.
La sua condanna sarà quella damnatio memoriae che sempre colpisce i servitori troppo zelanti.
Tramontata mani pulite, tramontata l’epoca delle “toghe rosse”, di Gerardo S’Ambrosio resterà solo l’incredibile acrobazia giuridica con cui metterà la pietra tombale definitiva sulla morte di Giuseppe Pinelli. Dopo la strage di piazza Fontana, centinaia di anarchici vennero fermati ed interrogati da una polizia già chiaramente orientata nell’addossare loro la responsabilità della strage. Giuseppe Pinelli era uno dei tanti: venne detenuto e interrogato illegalmente per tre giorni, assassinato e gettato dalla finestra del quarto piano per mettere in scena un suicidio. Una scena così male allestita che presto rivelerà mille crepe.
Occorreva mettere una pezza, salvare i poliziotti, senza ripetere l’insostenibile menzogna del suicidio.
Così nacque la tesi del “malore attivo”.
Né suicidio, né omicidio. Pinelli morì per malore.
Questo, in sostanza, il succo della sentenza con cui il giudice D’Ambrosio scrisse la parola “fine” alle indagini della magistratura sul caso Pinelli. Era il 1975, erano passati quasi 6 anni da quella notte del 15 dicembre ’69.
“Un malore per il compromesso storico” titolava così il redazionale di commento a quella sentenza uscito sul numero 43 della rivista “A” 43 (dicembre ’75/gennaio ’76).
Una sentenza che sancì la “verità di Stato” sulla morte del ferroviere anarchico, sindacalista dell’USI, attivo nella solidarietà alle vittime della repressione, Giuseppe Pinelli.
Lo stato non poteva condannare i suoi fedeli servitori, non poteva incolpare se stesso. Come previsto, li assolse in istruttoria, autoassolvendosi.
D’Ambrosio resterà nella memoria come il becchino che gettò l’ultima palata di terra sulla tomba di Pino.
Ascolta la diretta realizzata da Anarres con Massimo Varengo, un compagno che ha attraversato quella vicenda e, al di là della memoria, sa offrirci una riflessione che investe il senso stesso della grande partita che si giocò in quegli anni tra l’apparato statale – e i suoi amici dell’eversione nera – e i movimenti che fecero la scommessa di rimettere in gioco una prospettiva rivoluzionaria:
Ascolta sullo stesso argomento anche la diretta fatta dall’info di Blackout con con Paolo Finzi, da 43 anni redattore di A, compagno ed amico di Giuseppe Pinelli.