Il processo a quattro No Tav rinviati a giudizio per “attentato con finalità di terrorismo” per un sabotaggio al cantiere/fortino di Chiomonte avrebbe dovuto cominciare il 14 maggio, ad un anno esatto dall’azione in Clarea di cui sono accusati. Una scelta di forte rilievo simbolico: lo Stato mette in scena una rappresentazione in grande stile, per far mostra della propria invincibile potenza.
Davide può giocare Golia una sola volta. Quando il gigante si rialza la sua vendetta deve essere terribile, esagerata, fuori dal normale.
In ballo non c’è solo la punizione per chi viene accusato di aver praticato l’azione diretta contro un cantiere imposto con la violenza ad un’intera popolazione: occorre che l’accusa di terrorismo e una condanna “esemplare”, ricaccino in casa le migliaia di persone contrarie alla realizzazione della Torino Lyon.
Per ottenere lo scopo stanno mettendo in pista una macchina schiacciasassi che procede senza badare a chi si trova sul cammino.
La finale di un torneo di calcio fissata a Torino il 14 maggio, lo stesso giorno della prima udienza, ha indotto la Procura a far slittare di una settimana il processo, che è stato rimandato al 22 maggio e spostato nell’aula bunker delle Vallette. Una dependance del carcere, nel nulla metropolitano. Lì, chi è tra il pubblico, fa fatica a vedere la scena e deve ricorrere ai televisori installati. Il collegio giudicante è lontanissimo, le gabbie degli imputati quasi invisibili.
La democrazia celebra i suoi riti nel formale rispetto dei “diritti” sanciti dalla costituzione, ma, nei fatti, tutto collabora a trasformare in una farsa un processo che sembra avere la sentenza già scritta.
L’immagine di tifosi e No Tav che non possono convivere nella stessa giornata, anche se in luoghi e orari diversi, ha un enorme potere evocativo. L’equazione tra No Tav e violenza viene alimentata ad arte per giustificare sia il regime carcerario duro cui sono sottoposti Chiara, Claudio, Mattia, Niccolò, sia per dare alimento alla macchina dell’informazione, che alimenta, giorno dopo giorno, un clima di paura. Il quotidiano “Cronacaqui”, una settimana fa ha scritto che gli “anarchici uccideranno”. In prima pagina a titoli di scatola. I due maggiori quotidiani locali, “La Stampa” e “Repubblica” non sono da meno del fogliaccio fondato dal mai compianto onorevole post-fascista Ugo Martinat.
In compenso, per essere ben sicuri che i 12 giudici popolari che affiancheranno i togati durante il processo, non fossero in nessun modo influenzati, la Questura ha stabilito che fossero scortati in aula ad ogni udienza.
Intorno a questo processo costruito sul nulla stanno montando un’impalcatura da far invidia a quelle dei processi ai boss di mafia e n’drangheta. Il recente procedimento per gli inquisiti dell’operazione “Minotauro” ha avuto un rilievo mediatico decisamente inferiore.
La partita che si sta giocando intorno a questo processo è troppo importante perché lo Stato possa permettersi di perderla.
Era una storia di treni, di soldi pubblici da spartire in maniera sicura, la storia di un ceto politico che bada solo alla propria sopravvivenza, contando su un sistema di drenaggio di risorse pubbliche per fini privatissimi.
Da un pezzo non è più così. Avrebbero avuto mille argomenti per chiudere la partita in maniera indolore. Da due anni arrivano da oltr’alpe segnali che la Torino Lyon non è una priorità. Ha cominciato due anni fa la corte dei conti francese, dichiarando che nell’attuale contingenza, l’opera era troppo costosa: due anni dopo le ha fatto eco la commissione “Mobilité 21”, secondo la quale la nuova linea è inutile perché i flussi sono in calo e non c’è alcun dato che confermi una secca inversione di tendenza.
Invece no. I governi cambiano ma la determinazione ad imporre, costi quel che costi, il Tav in Val di Susa, diventa sempre più forte.
La ragione è semplice.
Lo Stato, di questi tempi, non può permettersi di perdere questa sfida.
Perderla significherebbe aprire la porte alla speranza. La speranza che un altro mondo sia davvero possibile, che ciascuno di noi può costruirlo.
Basta farsi un giro per l’Italia, attraversare una qualsiasi manifestazione, per vedervi far capolino le bandiere con il treno crociato. Le si vede tra i lavoratori in sciopero per il salario e tra chi lotta contro un inceneritore. Da nord a sud queste bandiere sono diventate simbolo di chi non si arrende e continua a lottare nonostante la repressione sempre più dura, nonostante i mille No Tav processati per le lotte, nonostante accuse gravissime come quella di terrorismo.
Persino miti intellettuali che hanno dichiarato il loro appoggio alla resistenza No Tav sono finiti nel mirino della Procura di Torino. Il processo per istigazione a delinquere contro il romanziere Erri De Luca comincerà il 6 giugno.
Nonostante tutto si sta allungando di ora in ora l’elenco degli uomini e donne di cultura, i cui nomi sono molto noti, che hanno scelto di esporsi sottoscrivendo un appello alla partecipazione alla manifestazione del 10 maggio in sostegno ai quattro attivisti accusati di terrorismo.
La giornata di lotta del 22 febbraio, quando in decine e decine di località, migliaia di persone si sono strette intorno a Chiara, Claudio, Nicolò, Mattia ha dimostrato che il vento sta cambiando.
Nelle piazze c’era la forza di chi, passo dopo passo, ha imparato a camminare con le proprie gambe, a non delegare ai professionisti della politica il proprio futuro. Non solo. Quelle piazze sono state la rappresentazione migliore che le strategie del governo, dei media, della magistratura, non riescono ad intaccare i legami costruiti in questi anni tra i tanti che lottano perché non sono più disposti a vivere relazioni politiche e sociali di sfruttamento e rapina.
Speravano di seminare la paura, di indurre i più al mugugno silente del bar sport, all’invettiva tra le mura di casa, ma hanno fallito
L’utilizzo di una fattispecie di reato che colpisce quattro attivisti per ammonirne cento, ha prodotto un effetto boomerang.
Di fronte alla criminalità di una classe politica che sistematicamente depreda le risorse pubbliche per fini del tutto privati, di fronte a chi non esita ad avvelenare la terra e chi ci vive, di fronte a chi saccheggia e devasta, a chi abbandona al degrado le scuole e i treni locali, a chi risparmia sulla nostra salute per arricchirsi, è chiaro chi sono i terroristi. Siedono nei consigli di amministrazione della CMC e della Rocksoil e delle tante ditte che lucrano sulle grandi opere inutili e dannose, siedono sui banchi del governo di turno, siedono sugli scranni dei giudici e sulle poltrone del Procuratori della Repubblica. Sempre più persone sanno che di fronte alla criminalità del potere, non basta la testimonianza, occorre mettersi in mezzo, agire concretamente per inceppare il dispositivo disciplinare nel quale stringono interi territori.
Non era un esito scontato. Chi in questi tre anni ha spinto sul pedale che accelera la repressione, chi rende sempre più dura l’occupazione militare, chi ricatta la materialità stessa delle nostre vite, sperava che un simile dispiegamento di violenza fermasse le lotte.
Il 22 febbraio è stata una tappa. Una tappa importante in un cammino sempre in salita. Chi va in montagna sa che sul pendio quello che conta è la durata, il passo fermo ma costante, la pazienza di superare la fatica, gli ostacoli, lo scoraggiamento.
Il 10 maggio sarà un’altra tappa. Una manifestazione popolare per le vie di Torino, una manifestazione che sfiorerà il tribunale, il grattacielo San Paolo/Intesa, la nuova stazione di Porta Susa per finire nel centro della città.
I media già soffiano sul fuoco per creare ancora una volta un clima di paura intorno ad una marcia, che, nello stile delle manifestazioni di Valle sarà una manifestazione per tutti, una manifestazione che mostri alla città, alla Procura, ai giudici, ai signori nei palazzi di potere che quella notte, in Clarea, c’eravamo tutti.
Tutti abbiamo bruciato quell’compressore, tutti sogniamo che la rabbia popolare, la rabbia di chi sta respirando le polveri venefiche di quel cantiere, possa spazzarlo via una volta per tutte.
Tutti abbiamo pronti nuovi germogli, nuove piante da mettere a dimora in Clarea, dove la furia del fare per il fare, del costruire per costruire, del correre per correre, ha fatto il deserto.
Nelle carte del tribunale c’è scritto che Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò sono terroristi perché l’azione loro attribuita rovina l’immagine dell’Italia.
La verità è un’altra. Il governo non può tollerare che qualche montanaro testardo possa mettersi di mezzo. L’apparato dello Stato non può tollerare che migliaia di persone osino contrastare le decisioni dell’Unione Europea, del governo Italiano, dei Ministeri dell’Interno e della difesa.
Alla vigilia del 25 aprile i fili delle resistenze di ieri e di oggi si intersecano. Oggi come allora i partigiani sono chiamati banditi, terroristi.
Oggi come allora “terrorista è lo Stato”.
Il governo ha paura che la ribellione della Val Susa possa continuare ad alimentare la speranza tenace che Davide possa abbattere Golia.
Per questa ragione è importante essere in tanti il 10 maggio a Torino.
Per la libertà di Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò. Per la libertà di tutti.
25 aprile a Torino – ore 14,30
presidio alla lapide al partigiano anarchico Ilio Baroni
in corso Giulio Cesare angolo corso Novara, dove Ilio è morto combattendo i nazifascisti.
Primo Maggio a Torino – ore 8,30 piazza Vittorio –
Lo spezzone rosso e nero, costruito con compagni di Alessandria, Asti, Novara, Biella, sarà aperto dallo striscione: “Terrorista è chi bombarda, sfrutta, opprime”
10 maggio marcia popolare No Tav a Torino – ore 14 – piazza Adriano
Maria Matteo (quest’articolo è uscito sull’ultimo numero del settimanale Umanità Nova)