Il quotidiano “La Stampa” di mercoledì 24 settembre ha pubblicato le dichiarazioni di alcuni esponenti dell’opposione laica al regime di Bashar el Assad. Prevalevano i dubbi e le incertezze. Gli Stati Uniti un anno fa parevano sul punto di bombardare Assad: non lo fecero perché il maggior sponsor del regime siriano, la Russia di Putin, si mise di mezzo. Obama fece marcia indietro, dopo aver incassato il misero contentino della distruzione dell’arsenale chimico siriano.
Un segno, tra i tanti, che gli Stati Uniti non potevano più fare il bello e il cattivo tempo nell’area. D’altra parte due guerre vinte sul piano militare e perse clamorosamente su quello politico non sono uno smacco da poco per la più grande potenza militare del pianeta. I fallimenti in Iraq e Afganistan pesano come macigni.
Ad un anno dalla ritirata sulla Siria, gli Stati Uniti hanno promosso una coalizione per attaccare l’Is, il califfato islamico fondato a cavallo tra la Siria e l’Iraq da una delle formazioni che Arabia Saudita e Stati Uniti avevano foraggiato per combattere Assad. Un vero capovolgimento di fronte. Il governo siriano ha dato il proprio silenzio/assenso e, con ogni probabilità, anche Mosca ha dato il nulla osta.
Come in Afganistan gli Stati Uniti devono fronteggiare con le armi formazioni che ne hanno incassato l’appoggio ma poi hanno perseguito il propri scopi, rafforzandosi ed autonomizzandosi nell’area.
Oggi il Califfo Al Baghdadi esige tasse e controlla risorse petrolifere sufficienti a garantirgli di poter agire in proprio.
Anche la dinastia Saud, sponsor dell’Isis e di altre formazioni della galassia del radicalismo sunnita, vede ombre sul proprio dominio nell’area e – sia pure senza troppo impegno si schiera contro l’alleato di ieri.
La partita è ben lungi dall’essere chiusa e gli alleati di oggi possono essere i nemici di domani.
Ascolta la diretta dell’info di blackout con Stefano Capello, attento osservatore degli equilibri geopolitici.