“Il soldato americano accusato di due stupri, tenta il 3° evadendo dalla caserma di Vicenza“. Questa notizia è stata lo spunto per la discussione che l’informazione di radio blackout ha fatto con Chiara de “il colpo della strega” sulle violenze sessuali contro le donne dei soldati nei territori militarizzati e insieme – ampliando la prospettiva e allargando lo sguardo – sullo stupro come arma di guerra.
La notizia è di qualche giorno fa, ma la cronaca conta purtroppo molti altri episodi simili. Già nel 2006 un militare statunitense, accusato di stupro e condannato a sei anni di reclusione, è stato liberato e si è visto ridurre la pena per le attenuanti dovute allo stress psicologico prolungato dovuto al suo incarico di un anno in Iraq.
Le motivazioni della sentenza riportano che il prolungato stress e la ridotta importanza data alla vita umana ed al benessere di coloro che lo circondano possono avere influenzato il reato.
In fondo è una confessione: chi fa la guerra diventa insensibile alla vita umana e alla dignità delle persone.
Il pensiero va inevitabilmente al 12 febbraio 2012. Siamo a L’Aquila. In una discoteca, una giovane donna di 20 anni era stata stuprata e ridotta in fin di vita. Lasciata svenuta, sanguinante e seminuda in mezzo alla neve fuori dal locale, era stata salvata da un buttafuori della discoteca che stava facendo un giro prima della chiusura. Ha dovuto subire numerose operazioni di ricostruzione per le violenze sessuali subite e fu ad un pelo da morire. Ha dovuto allontanarsi da casa e dalla sua comunità per vivere in un luogo protetto per poi emigrare al nord. Accusato di questo stupro e tentato omicidio è Francesco Tuccia, un militare in servizio all’Aquila per l’operazione “Aquila sicura” partita dopo il terremoto.
Mele marce o prassi consolidata? E’ evidente la consuetudine di queste violenze in particolare nei territori militarizzati, ma in generale nelle zone dove il pacchetto sicurezza ha imposto più pattugliamenti, controlli antiprostituzione e massiccia presenza di forza dell’ordine.
Nella maggior parte dei casi, lo stato si è autoassolto, ribadendo l’immunità e l’impunità delle istituzioni in divisa quando fanno violenza. Immunità ed impunità che fanno parte dell’insieme dei privilegi che i “tutori dell’ordine” hanno come contropartita dei loro servigi.
L’esercizio della violenza di genere in situazioni di conflitto costituisce di fatto un continuum dei comportamenti discriminatori e violenti che avvengono in tempo di pace.
Lo stupro di donne è da sempre strumento specifico di terrore e lo è stato in particolare nei conflitti degli anni ’90 in Europa. Spesso gli stupri di massa sono accompagnati da gravidanze forzate. Lo scopo è duplice: umiliare le donne e alterare il mantenimento della comunità in senso etnico.
Lo stupro è una pratica diffusa anche tra le forze armate nelle cosiddette missioni di pace: i casi più recenti – Congo, Bosnia, Sierra Leone, Rwanda e Kosovo – hanno sollevato per la prima volta l’attenzione a livello internazionale, dando la possibilità di cominciare a parlare anche delle violenze sessuali compiute dai peacekeepers.
Un caso tra tutti, quello della Bosnia, dove il corpo femminile è stato – letteralmente – territorio di contesa. I militari (e non solo) violentavano il corpo delle donne dell’Altro per farne terreno di conquista, luogo di inseminazione etnica.
Lo stupro non è stata “conseguenza” della guerra ma arma che ha affiancato le operazioni di pulizia etnica. Una violenza inaudita che ha lasciato dietro di sé non solo paura e smarrimento, ma anche colpevolizzazione nelle donne stesse, spesso isolate e emarginate dalla loro stessa comunità, per essere state disonorate.
A cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta ci fu in Guatemala un tentativo di genocidio della popolazione Maya. Meno noto è il gran numero di stupri contro le donne, parte integrante di quella guerra.
Nel nostro paese non si sono mai fatti i conti con il retaggio coloniale fascista e in particolare sulla propaganda di guerra che metteva al centro la donna/preda desiderosa di essere cacciata. La colonna sonora di quell’epoca è la canzone “Faccetta nera…”. Dopo la guerra di conquista la propaganda muta di segno: messe in soffitta le cartoline con belle ragazze poco vestite, le donne africane sono rappresentate come sporche, stupide, bestiali. Da respingere, per non inquinare la razza.