All’indomani della visita del premier israeliano negli USA si traggono le somme e si azzardano riflesioni sul discorso al Congresso. Un discorso tenuto “in casa”, dal momento che l’invito non è arrivato dal mai troppo gradito Obama ma dall’opposizione repubblicana, ed indirizzato chiaramente alla porzione di opinione pubblica che mal digerisce la politica estera dei democratici, cercando di fomentare fobie e, di conseguenza, aumentare richieste interventiste negli USA. Con attacchi più o meno diretti, il primo ministro israeliano ha condannato la ricerca dell’accordo portata avanti, per quanto faticosamente, da Obama con lo Stato iraniano: riduzione delle sanzioni inflitte al paese asiatico in cambio di un ridimensionamento (difficile dire quanto concreto) del programma nucleare iraniano. L’ospite israeliano ha dichiarato, con una metafora cinematografica, di essere in un regno in pericolo tra due grosse minacce, Isis e Iran. L’intento poco celato è quello di spezzare il sottilissimo filo che lega Teheran a Washington, e seppellire ogni tentativo di costruzione di rapporti di ogni tipo tra i due paesi, così da rimanere l’unico paese, insieme all’Arabia Saudita, alleato con gli USA nell’area geografica mediorientale.
Quanto le parole di Netanyahu siano una spinta al partito repubblicano americano e al contempo una spina per i democratici e la loro linea nei rapporti esteri è ben chiaro. Altrettanto facile da intuire è che il discorso sia utile ad aumentare consensi in Israele in vista delle prossime elezioni, piuttosto che a convincere Obama a cambiare rotta. Più complicato, invece, dire quale sarà la reazione del Congresso al richiamo del premier israeliano. I precedenti non sono univoci: se è vero, infatti, che nel 2002 si decise in senso interventista nei confronti dell’Iraq, il nemico di allora, nei mesi conclusivi dell’era Bush jr le richieste d’intervento contro l’Iran, dello stesso Neatnyahu caddero inascoltate.
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