L’agire rivoluzionario, nell’attraversare un percorso di trasformazione radicale delle relazioni politiche e sociali, è, costitutivamente, anche narrazione.
La diffusione e l’accessibilità pressoché universale di strumenti di comunicazione ha enormemente amplificato il carattere discorsivo dell’azione di piazza.
Sottile è il confine tra rappresentazione e rappresentanza. Su questo confine si giocano partite di egemonia, che spesso sfuggono all’analisi e al controllo di chi partecipa alle iniziative, pur avendo contribuito a costruirle.
Il dibattito/scontro sul Primo Maggio milanese si inceppa su una faglia solida ma prismatica, dove si intrecciano più piani.
Uno è quello dei media, che, come cinicamente rilevava qualche amante del “realismo”, fanno la loro partita e contribuiscono a costruire una narrazione difficile da ignorare, perché spesso costituisce e costruisce una parte dell’opinione.
Nel dibattito di queste settimane non è mancato chi – leggete l’ultimo editoriale su infoaut – pur rivendicando il “riot”, lo avrebbe preferito più “civile”, più forte nel proporre una comunicazione dove l’atto distruttivo fosse immediatamente leggibile dal filtro dei media. Pur condividendo l’aspirazione ad una comunicazione che sappia farsi opinione più allargata, dubitiamo che i media siano governabili dai movimenti.
Quest’analisi della giornata mette in scena una rappresentazione della piazza, disegnata da chi vorrebbe farsene “rappresentante”, ben al di là dello spazio di una may day milanese, in cui le anime scisse della post autonomia, si sono contese il monopolio della visibilità.
Al di là della trasparente rabbia di chi pensava di condurre il gioco ma non ha portato a casa il risultato pieno, colpisce che il concetto sensato della chiarezza degli obiettivi, venga delegato allo specchio dei media. Ci permettiamo di immaginare che se il “riot” avesse colpito solo banche e auto di lusso, la narrazione mediatica non sarebbe cambiata.
Parte di chi ha agito il “riot” ha affidato ai graffiti la propria narrazione. Un cuore intorno al foro di una vetrina infranta, una scritta su un negozio aperto il Primo Maggio, allusioni poetiche ad una narrazione rivolta ai propri affini, che raramente riesce a farsi opinione condivisa al di fuori di chi ha la chiave di decodifica culturale del messaggio.
Scartiamo intenzionalmente il concetto di “opinione pubblica”, perché l’epoca in cui la diffusione aurorale della stampa quotidiana produceva “opinione pubblica” è tramontata e i piani su cui si costruiscono le narrazioni condivise sono molteplici, a volte intersecati ma non sempre comunicanti.
La giornata delle spugnette dove la sinistra Mastrolindo è scesa in strada per ripulire la città è frutto della proposizione della tematica del bene comune in chiave nazional-popolare. Quella giornata, ben più degli scontri del Primo Maggio, ha messo in secondo piano la devastazione e saccheggio rappresentati dal modello Expo. L’appannata amministrazione Pisapia ha recuperato punti, l’Expo probabilmente meno.
Nelle prime ore dopo la manifestazione milanese i social media pullulavano di complottisti che ripetevano la noiosa litania sugli infiltrati nero vestiti: fortunatamente in meno di 24 ore questo argomento buono per tutte le stagioni è stato riassorbito in un dibattito meno banale. Il ricorrente comparire di queste tesi afferisce all’incapacità di confrontarsi con pratiche eccedenti la normalità: se c’è la lunga mano della questura tutto va a suo posto, non c’è lacerazione, non c’è divaricazione, non c’è conflitto, non c’è divisione tra buoni e cattivi, perché i “cattivi” sono ridotti al rango di burattini.
È un’interpretazione intrinsecamente rassicurante. Niente dibattito, niente confronto. I buoni sono buoni e i cattivi sono finti. Una favola triste e inutile.
Una favola che fa sempre meno presa sull’immaginario.
La narrazione sconfitta è stata quella delle assemblee che hanno costruito le giornate No Expo, il cui punto di arrivo e ri-partenza avrebbe dovuto essere il Primo Maggio milanese.
Un corteo comunicativo e conflittuale era la proposta per una may day che mettesse insieme, nello stesso spazio, una rappresentazione plurale dove l’agire comunicativo fosse condiviso da tutte le anime del corteo.
Una scommessa che il “riot” ha fatto saltare, svuotando di senso la giornata dei “blocchi” del 2 maggio e portando alla cancellazione dell’assemblea finale.
Il No Expo proseguirà, ma il momento magico della rappresentazione corale non potrà essere recuperato.
Forse era una scommessa impossibile, forse la rete No Expo ha tentato la quadratura del cerchio. Di certo sullo sfondo c’era un’aspettativa non detta ma sussurrata di bocca in bocca: il primo maggio a Milano il “riot” avrebbe riempito la scena. Forse era una storia già scritta. Forse.
Lo abbiamo messo con le virgolette “riot”. Lo abbiamo scritto in inglese perché se avessimo scritto sommossa, o rivolta sarebbe stata chiara a tutti la distanza tra le parole e le cose.
“Riot” ha invece in se la potenza semantica dell’immagine stereotipa che si riproduce di piazza in piazza, di continente in continente. Ragazzi mascherati, lacrimogeni, polizia, auto in fiamme e banche sfondate. Roba che ritorna a tutte le latitudini, tanto che qualcuno sta teorizzando il ritorno delle rivolte, senza accorgersi, che non hanno mai smesso di esserci.
L’immagine iconizzata del lancio della boccia parla la lingua del conflitto, racconta quello che ogni giorno non accade: è innegabilmente seduttiva per tanti, perché narra l’immediatezza di un agire che non rimanda ad altro, che si concreta nel subito, che ha in se il proprio fine: comincia e finisce con la vetrina infranta.
A due passi dagli scontri i supermercati erano aperti, un gelataio spalmava coni con un occhio alla strada, a Rho migliaia di volontari lavoravano per l’illusione di salire il mezzo scalino che divide i sommersi dai salvati.
La stessa retorica sulla distruzione dei simboli del potere e del capitalismo, la narrazione di alcuni settori di movimento, ha una logica debole, vista l’incomparabile distanza tra le infinite macerie del capitalismo e i vetri infranti nel centro di Milano.
La seduzione è nel gesto, non nella sua rappresentazione politica.
Su questo sentire che ha una propria intrinseca onestà c’è chi ha provato a giocare il vecchio gioco dell’egemonia. Ma è una tela dalla trama logora, che gioca sporco con i propri stessi compagni di “riot”, perché nega loro dignità politica, relegandoli nella sfera della spontaneità. Una spontaneità che non escludiamo si sia data in qualche occasionale processo imitativo ma è improbabile che sia appartenuta ai più.
Diciamolo chiaro: Milano non è Baltimora o Istanbul.
A Milano non c’è stata una sommossa ma un settore della piazza che per un’ora e mezza ha messo in scena la sommossa.
Lo diciamo con rispetto. Il rispetto dovuto a chi rischia, a chi è stato arrestato, a chi potrebbe perdere la propria libertà per anni. La vendetta dello Stato affina i propri strumenti e sarà segno della maturità dei movimenti che nessuno sia lasciato solo, che chi è nel mirino abbia sostegno attivo, perché nelle Procure stanno tessendo la rete delle prossime operazioni repressive.
Eravamo al corteo del Primo Maggio a Milano. E non siamo pentiti di esserci stati, anche se avevamo creduto alla scommessa di un corteo conflittuale e, insieme, comunicativo.
Eravamo in coda. Dietro a tutti, rioter compresi, e siamo arrivati sino in fondo.
Un corteo è un corteo. Doveva essere la rappresentazione collettiva delle lotte che in ogni dove danno corpo al mondo nuovo che vogliamo e che stiamo già costruendo, nel conflitto e nell’autogestione. Non lo è stato. Ci saranno altre occasioni, se sapremo costruirle.
Non ci interessano le vetrine rotte, ci interessa la storia che raccontano. Il fatto, nudo e crudo, è che quel settore della piazza milanese non era lo specchio di lotte reali ma il loro sostituto. Lo diciamo con l’umiltà di chi sa quanto sia arduo un percorso di lotta radicale, un percorso che osi mantenere chiara all’orizzonte l’urgenza dell’anarchia, l’urgenza di un mondo senza servi né padroni. Senza stati, né eserciti.
Lo diciamo con la chiara consapevolezza che quanto avvenuto ci interroga tutti sull’efficacia del nostro agire, sulle prospettive di lotta. Dobbiamo registrare un’assenza. Un’assenza pesante come un macigno, un’assenza che abbiamo visto evocare in questi anni da tanti compagni e compagne, intelligenti e generosi. Un’assenza che non possiamo ignorare. Manca la proiezione rivoluzionaria, manca la tensione a credere possibile un mondo realmente diverso da quello in cui siamo forzati a vivere. La precarietà iscritta nella materialità del vivere quotidiano, diviene condizione esistenziale, chiusura prospettica. Senza tensione ad un mondo altro, senza una rottura quotidiana dell’ordine imposto, il sasso che spezza il vetro, la molotov che brucia il macchinone bastano a se stessi.
Il problema non è il volo ma l’atterraggio: le lotte sui territori solo occasionalmente riescono a coniugare radicalità e radicamento.
Questa continua ad essere la nostra prospettiva, una prospettiva costitutivamente estranea a logiche egemoniche, perché allergica ad ogni forma di potere. E di contropotere.
La strada da fare è tanta. Il conflitto, quello vero, lo agiamo giorno dopo giorno nei territori dove viviamo e che attraversiamo. E ne conosciamo la difficoltà.
Il Primo Maggio sempre più gente va a lavorare.
Questa è la vera sconfitta che noi tutti abbiamo patito quest’anno: pochi hanno scioperato, perché le reti di sostegno a chi lotta sono troppo deboli, perché la divisione tra sfruttati ha aperto solchi profondi, perché la rappresentazione di un altro futuro, come di un AlterExpo deve ancora fare breccia nei cuori e nelle menti di tanti con cui, nei nostri quartieri, facciamo un pezzo di strada insieme.
I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese