Sono arrivati all’alba. Uomini e donne in armi, blindati, un elicottero, le ruspe. Un’operazione in grande stile in quello che resta della più grande baraccopoli d’Europa.
Nessuno è stato avvertito. Gli uomini in divisa sono entrati nelle baracche intimando di uscire, incuranti dei bambini spaventati, forti dell’arroganza di chi si crede superiore, pieni di disprezzo per gente che la povertà marchia come inferiori.
Gli uomini e le donne del canile municipale catturano i cani. Una donna anziana ci mostra il libretto del suo cane, rubato e deportato al canile. Agli uomini, alle donne, ai bambini va peggio che ai cani. Poche cose vengono salvate mentre i vigili urbani prendono le bombole e le scaricano in aria. Respiriamo gas e razzismo, respiriamo il sapore agre dell’indifferenza per chi non potrà più accendere una stufa, per chi questa notte non avrà posto per dormire. Il comune offre un riparo per i bambini e le mamme, nulla per uomini, anziani, disabili. Sanno bene che nessuno accetterà di separarsi. Tutti hanno paura che il comune si rubi i loro figli.
Tante volte questa minaccia è bastata per sopire la rivolta, per tenere sotto controllo la rabbia.
Quando partono le ruspe l’antisommossa sospinge tutti in là, abitanti e solidali accorsi.
Ma questa volta non finisce tutto tra rabbia e rassegnazione. Chi è stato sgomberato e chi ancora ha una baracca dove dormire si riunisce in assemblea. Qualcuno offre un caffè caldo, la nebbia di ottobre si scioglie in una giornata di sole. Si decide di uscire dal campo. I carabinieri bloccano gli ingressi, cercano di impedirci il passaggio. Ma la gente non molla. Alla fine si va. L’appuntamento è all’ufficio nomadi di via Bologna. Tutti entrano e in breve viene occupato. Ci sono una cinquantina di persone, che non sono più disposte a chinare la testa, che hanno deciso di lottare. Fuori compare uno striscione “Casa per tutti! No a sgomberi e sfratti”. Arriva la Digos e l’antisommossa. Nessuno cede. Dopo oltre due ore di occupazione una nuova assemblea decide di uscire in corteo. Si va per via Bologna, i testa i più piccoli, gridando “non spaccate il campo, vogliamo le nostre case”.
Due anni fa al campo c’erano oltre mille persone. Una polveriera sociale che l’amministrazione comunale torinese è stata abile a disinnescare. Cinque milioni di euro affidati alle sapienti mani di una cordata di cooperative ed associazioni che tra promesse e minacce, illusioni e violenza hanno trasformato l’area in un cumulo di macerie.
L’amministrazione Fassino mirava a sgomberare tutti, facendo leva sulla complicità degli sgomberati illusi dal miraggio di una casa che non è mai arrivata, dividendo i sommersi dai salvati.
Alla fine i nodi sono arrivati al pettine.
La cooperativa Valdocco, capofila del progetto la “Città possibile”, portato avanti da Comune di Torino, Prefettura, associazioni e cooperative che si sono spartiti la torta di 5 milioni di Euro, aveva annunciato a fine settembre che la parola sarebbe passata alle ruspe.
In realtà le ruspe “a bassa intensità” non hanno mai smesso di lavorare nella baraccopoli, smontata pezzo a pezzo, dopo lo sgombero violento di cento persone il 26 febbraio.
In estate i vigili urbani, l’esercito e la Croce Rossa hanno monitorato le presenze al campo, accompagnando le ruspe che abbattevano le baracche di chi è stato deportato “volontariamente” in Romania con il miraggio di 300 euro. In quest’ultimo anno tante altre baracche sono state buttate giù, imponendo a chi le abitava di “collaborare” alla distruzione, per dimostrare la propria volontà di “superare” il campo.
Questi hanno ottenuto in cambio un monolocale a 250 euro al mese, come le 13 famiglie spostate nel social housing di corso Vigevano, di proprietà del Ras delle soffitte Giorgio Molino, dal quale saranno sfrattate a fine novembre.
Le famiglie “meritevoli” nelle case, le altre deportate in Romania o sgomberate. Come se il “campo” fosse una scelta naturale e non una necessità imposta dalla povertà, dallo sfruttamento e dalla discriminazione. Persone senza casa a cui viene applicata arbitrariamente l’etichetta di “nomadi” per giustificarne la ghettizzazione.
Le persone che abita(va)no le baracche sono immigrate dalla Romania negli ultimi quindici anni. Quasi tutti sono rom, quasi tutti abitavano in case, ma qui non riescono a pagare un affitto. Costruire una baracca non è una scelta, ma una necessità.
Entro la fine dell’anno sarà tutto finito. Baraccopoli demolita, sfratti eseguiti, famiglie in strada, i cinque milioni di euro assorbiti dalle associazioni coinvolte nell’operazione “la città possibile”. Oltre a Valdocco, AIZO, Terra del Fuoco, Stranaidea, Liberi Tutti, Croce Rossa. Il Comune di Torino ha messo in piedi il progetto per portare a termine uno sgombero “silenzioso”, altrimenti impraticabile con il solo uso della forza pubblica.
Due anni dopo l’inizio del progetto, l’obiettivo è ormai chiaro a tutti: sgomberare il campo rom non autorizzato più grande d’Europa, senza offrire nessuna alternativa abitativa.
Chi, come la famiglia di Aramis, a fine settembre aveva provato a tornare alle baracche lungo la Stura, si era trovato di fronte vigili urbani, che non avevano esitato ad usare spray urticanti, estrarre pistole, mollare pugni, immobilizzare al suolo e arrestare.
Ma qualcosa si sta muovendo.
In maggio centinaia di abitanti della baraccopoli di via Germagnano hanno bloccato l’ennesimo corteo razzista in Barriera di Milano.
Il 12 ottobre gli abitanti delle baracche di lungo Stura Lazio e quelli del social housing di corso Vigevano sono scesi in strada. Sono usciti dalla baraccopoli di Lungo Stura Lazio, dal social housing di corso Vigevano e da altre “sistemazioni temporanee” da cui vengono minacciati di sfratto. Il corteo di lotta per la casa, accompagnato dall’Assemblea Gatto Nero Gatto Rosso e solidali, si è preso le strade del centro per raccontare della grande truffa della “città possibile”.
Il patetico tentativo di infiltrazione nel corteo da parte di A.I.Z.O. è stato respinto con forza dalle famiglie sotto sfratto dal social housing di Corso Vigevano, gestito dall’associazione.
Maurizio Marrone, l’esponente di Fratelli d’Itala è stato accolto con rabbia e risate, perché il prode consigliere anti-immigrati ha lanciato dal Comune volantini con gli orari dei bus dalla Romania a Torino…
“No allo sgombero dei campi rom. Marrone merda”, questa scritta comparirà tre giorni dopo sulla serranda della sede di “Fratelli d’Italia” in via Rondissone.
Si è sostato a lungo sotto il Comune, di fronte alla Prefettura e alla RAI.
Uomini, donne e bambini hanno preso la parola, raccontando le loro storie di immigrati senza casa, della fatica di vivere vendendo il meglio dei cassonetti, facendo pulizie, badando ai nostri anziani. In ogni parola c’era il sapore aspro di chi vive avvolto nella cappa di un razzismo diffuso, radicato, implacabile, che ti soffoca come una ragnatela. Con dignità o coraggio le loro vite negate e nascoste sono diventate protagoniste di una narrazione a più voci, una narrazione forte. I bambini e le bambine hanno raccontato del loro desiderio di continuare a frequentare la scuola, del timore dello sgombero, della deportazione.
Ciascuno ha ribadito che la casa è un bisogno di tutti e tutte, così come la salute, l’istruzione, la libertà di movimento. Lo hanno detto chiaro: i tentativi di sgombero e sfratto li troveranno sulle barricate. Se l’unica risposta del Comune è la guerra sociale, il corteo del 12 ottobre, l’occupazione dell’ufficio nomadi e il successivo corteo hanno dimostrato che la misura è colma, che la gente delle baracche è decisa a prendere in mano le proprie vite con forza e dignità.
M.M. (una prima versione di quest’articolo uscirà sul prossimo numero del settimanale Umanità Nova)