Mercoledì 21 ottobre. Questa mattina è cominciato il processo ad Aramis, un abitante della baraccopoli di Lungo Stura Lazio, accusato di aver aggredito e ferito tre vigili del nucleo “nomadi” del comune di Torino.
Era il 29 settembre. Aramis e la sua famiglia, tornati dalla Romania dopo otto mesi, non trovano più la loro baracca. La 104, secondo la numerazione imposta dai vigili, è stata abbattuta. I parenti di Aramis ha accettato il patto con il Comune, rimpatrio in Romania in cambio di 300 euro al mese. La realtà è ben diversa. La famiglia riceve 50 euro al mese per tre mesi e 150 per il quarto, poi più nulla. In Romania non c’è lavoro, neppure i lavori in nero e sottopagati della maggior parte degli abitanti di Lungo Stura.
Tornare a Torino è una scelta obbligata. La baracca 23 è vuota e viene occupata. Questa storia, uguale a tante altre, dimostra il fallimento del progetto “la città possibile”. O, meglio, il fallimento della narrazione – intrinsecamente razzista – “sull’emersione dal campo”, come se il campo, la baracca fossero una scelta e non una necessità.
Ben riuscita invece l’operazione di sgombero, indolore, pezzo a pezzo, spesso con la complicità obbligata degli stessi abitanti, obbligati a collaborare alla distruzione delle baracche.
Alla fine la trama logora del progetto la “città possibile”, si sta strappando in più punti.
Lo dimostrano i cortei e le proteste dell’ultimo mese. Ne è il segno anche la vicenda finita oggi in tribunale.
Le testimonianze contraddittorie, iperboliche, esplicitamente razziste dei tre vigili urbani, che, secondo l’accusa sarebbero stati aggrediti e feriti da Aramis, hanno posto l’accento sulla paura dei tre vigili. Tutti “lavoravano” in Lungo Stura Lazio da molti anni, anni trascorsi a controllare, cacciare, multare, intimidire. Conoscono tutti per nome e sono abituati a vederli chinare la testa. La reazione rabbiosa di Aramis, nonostante riescano facilmente a sopraffarlo, li stupisce e li spaventa. Temono che quella rabbia dilaghi, che altri decidano che la misura è colma, che non vogliano più subire umiliazioni. Le altre persone del campo non si avvicinano, limitandosi a gridare, ma ormai i tre vigili hanno perso la testa. Una di loro estrae la pistola e la punta verso le persone intorno, un’altra usa ripetutamente spray urticante contro Aramis, ormai ammanettato e chiuso in un angolo, l’ultimo vigile gli pianta un ginocchio nella schiena, schiacciandolo a terra.
Anche una bambina di 12 anni ha gli occhi gonfi per lo spray urticante. Uno dei tre vigili butta via la bottiglia d’acqua portata da una donna per pulire gli occhi del ragazzo.
In tribunale i vigili si giustificano dichiarando “eravamo in un campo nomadi, circondati da nomadi”. Un’affermazione che cerca la complicità di chi ascolta, che dovrebbe considerare in se pericolosi i “nomadi”: Pericolosi perché “nomadi”, rom, “zingari”. Pericolosi per quello che sono, non per quello che fanno. Un approccio in cui si radica la violenza razzista.
Il processo contro Aramis proseguirà il 17 febbraio. In quell’occasione verranno proiettati i tre video realizzati durante l’arresto di Aramis.
Video che inchiodano i tre vigili.