Cammino per la strada. La gente mi guarda, mi guarda perché io non sono normale. Qualcuno glielo ha detto, ne sono convinto, qualcuno gli ha detto che la scorsa settimana ero legato al letto del reparto dei matti.
Li guardo e loro mi guardano e si ammiccano. Sanno che sono uno di quelli. Sanno che il fiato mi si mozza e non riesco a muovere un passo, perché c’è qualcosa che mi schiaccia. Loro si muovono veloci, io, da dieci minuti sono qui fermo, appoggiato al muro. Aspetto. Prima o poi mi muovo e arrivo dal tabaccaio. Il tabaccaio è a pochi metri ma potrebbero essere mille, perché l’angoscia mi schiaccia come un macigno. Ho paura, ho paura che il sangue che pulsa veloce nelle vene schizzi fuori e mi uccida. Mi tocco il polso, mi tocco la fronte, le farfalle corrono davanti agli occhi. So che è nulla ma ho paura: la vita è cosa fragile e ci vuol poco a spezzarla. Immagino la gente che guarda in mio corpo accasciato a terra. No! No! No! Non voglio che mi guardino in viso, non voglio che mi frughino le tasche, non voglio la loro pietà inutile.
Questo pensiero mi scuote, guadagno il tabaccaio esco con le sigarette, scartoccio il pacchetto e accendo. Una lunga tirata e la testa mi gira e si mischia con il sole impossibile dell’estate in città.
Sotto casa li sento subito: si fanno segno e bisbigliano forte. Anche l’africano è lì, nel crocchio dei vicini. Gli stessi che quando non c’è gli dicono negro e bisbigliano che sua moglie puzza, perché le negre puzzano. Quando ci incrociamo lei si allontana rapida, caracollando sulle ciabatte di plastica dura con il tacco, lucide e celesti. Il sole ci si riflette, luccica insidioso.
Adesso anche lui e la moglie sono con gli altri del condominio: oggi sono più negro di lui. Lo odio.
Sono stati loro. I miei vicini. Hanno chiamato il 118. Dicevano che da casa mia usciva la puzza. Gli hanno detto che ero morto, che non mi vedevano da giorni.
Quando hanno provato a buttare giù la porta sono andato ad aprire. Quelli dell’ambulanza gridavano forte. Forte. Forte. Mi scoppiava la testa, ma il rumore mi ha fatto tornare tra le cose della mia casa vuota.
Ho detto che stavo bene, che andassero via. Ma non ne hanno voluto sapere. L’africano guardava da dietro la porta socchiusa del suo appartamento, che è di fronte al mio. Gli altri erano tutti fuori sulle scale. Stavano zitti e guardavano.
Non ho avuto il tempo di vestirmi bene: ho preso una borsa con poche cose, tutte inutili, ma non lo potevo sapere.
Non sapevo che per le mie proteste mi avrebbero legato e sprofondato in un buio chimico.
Il mio vicino di letto è un uomo vecchio vecchio, che non parla, ma urla, chiama i figli che non ci sono, vorrebbe essere nella sua vigna chi sa dove. Parla sempre di quella vigna e dell’uva e del vino e di un tempo altro, che torna nel suo ricordo straziato. Dicono che non capisca più chi è, né dov’è, ma non credo sia proprio vero. Non è possibile. Un rimpianto così ce l’hai se sai cosa hai perso. Poco importa che non sai quando, dove, chi.
Siamo vicini, vicini, qui in questa camera, dove gli orari sono quelli dei bambini piccoli, quelli di chi non sa e deve essere guidato. Ma siamo lontani: schiacciati nei nostri letti. Le sue urla, il mio silenzio. Desideravo che smettesse. Il tempo si dilatava come uno specchio del luna park. Ho sempre odiato i luna park. La caricatura della vita che non c’é.
Tra me e lui c’è un confine, di parole non dette, di complicità irrealizzate. Eppure la violenza che ci inchioda qui è la stessa.
Sul suo comodino qualcuno ha lasciato un quotidiano. In prima pagina c’è la foto di una spiaggia con tanti uomini e donne coperti da un lenzuolo, uccisi dalla stessa violenza che imprigiona me e il vecchio delle vigne. Se solo smettesse di gridare. Non può. Se smettesse il vuoto se lo mangerebbe. Solo la morte può spegnere le sue urla.
Sto accucciato sul mio letto, lontano dai loro sguardi, spero che si dimentichino di me. Il sangue pulsa rapido nella mia tempia. Veloce, veloce. Tutto intorno è come una palude, nella quale sprofondo.
Suona il campanello. Dallo spioncino vedo la faccia del dirimpettaio, dell’africano, quello che prima bisbigliava con gli altri, mentre passava il matto del sesto piano. Io con il pacchetto gualcito delle sigarette stretto in mano.
Resto muto, non rispondo. Lui suona ancora e ancora e ancora. Professore! Professore! Mi apra professore!
Quella parola “professore” mi si infila in testa come un chiodo appuntito. So che richiesta contiene. Deve fare l’esame d’italiano per avere il permesso. E bussa, bussa, bussa! Come osa bussare? Era lì zitto mentre mi portavano via. Non ha detto una parola. Poteva dire che ero il suo insegnante. Avrebbe potuto ma non l’ha fatto: perché torna adesso? E poi l’esame era l’altra settimana, ormai è fatta.
Professore, sono Mustapha, mi aiuti, mi aiuti. Mi schiaccia sullo spioncino un pezzo di giornale. C’è la foto con i morti sulla spiaggia. Tutti neri, come Mustapha.
Ora sussurra. Mio fratello era lì su quella barca, non sappiamo più niente, ho paura che sia morto. Mi aiuti.
Apro lentamente la porta.
Tante telefonate. Sapete se Ali è lì? Nessuno sa, ai più poco importa di parlare.
Ci vogliono tre giorni. Tre giorni di paura e speranza. Poi scopriamo che il fratello è vivo, chiuso dietro un reticolato.
Mustapha mi guarda. Professore io. Professore io pensavo che stesse male. Lo fermo alzando la mano, scuotendola piano. Non è nulla, non ti preoccupare.
La realtà di un confine che uccide ogni giorno ci ha riavvicinati.
Ripenso al vecchio della vigna, cui non sono stato capace di stringere la mano quando mi hanno dimesso dal repartino dei matti.
Sono tanti i confini che uccidono e imprigionano.
Sono fatti di leggi, uomini armati, psichiatri e siringhe, filo spinato e repartini.
Siamo noi che li teniamo in piedi. La nostra fragilità è il loro cemento. Spesso non ce ne accorgiamo neppure.
Forse oggi mi faccio una doccia e scendo in strada. In fondo il tabaccaio non è così lontano.
(questo breve racconto è stato scritto da Eufe. É una storia inventata, fatta con i frammenti di vite che Eufe ha incrociato)