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La maschera della democrazia

maschereRiflessioni a margine di una storia di (stra)ordinaria repressione in una banlieu parigina.

L’Isis ha un solo merito: aver messo allo scoperto le aporie democratiche, l’inconsistenza della narrazione sull’universalità dei diritti umani, la scatola vuota che regge l’immaginario che attraversa buona parte del pianeta.
Sui social media francesi e poi, di rimbalzo, su quelli nostrani, gira il racconto di un giovane ricercatore universitario testimone ed involontario protagonista di una vicenda di ordinari soprusi.
All’uscita della metropolitana sente le urla acute di una donna. La vede a terra, ribelle alle fascette di plastica che le serravano i polsi incidendole la carne. Il trattamento le era stato inflitto da un folto gruppo di poliziotti che l’avevano pescata senza biglietto. Siamo in una banlieue e la donna è nera.
La scena è molto violenta: l’uomo prova a fare delle riprese ma diventa a sua volta vittima dei poliziotti. Gli strappano il cellulare lo malmenano in un crescendo di insulti e botte. Lo minacciano di stupro e di morte. Gli dicono che andranno a cercarlo alla Sorbona. Usano il taser per torturarlo. Il dolore e la paura si mescolano. Finirà con una carica con manganelli, lacrimogeni e pepper spray sulla piccola folla che si era adunata intorno.
La narrazione è molto lucida: la donna è stata razzializzata, privata di quella citoyenneté universale, che è l’architrave narrativa della Republique. L’uomo viene attaccato come rappresentante di un’elite intellettuale che non sa stare al suo posto, che gioca con i principi, mentre intorno infuria la guerra.
Questa storia ha suscitato indignazione, perché la Republique avrebbe infangato se stessa, i propri principi, la propria stessa ragion d’essere.
Quest’indignazione in realtà non fa che confermare le ragioni dei guerrafondai, di quelli che cavalcano lo scontro di civiltà. L’indignazione conferma che c’è chi ritiene che la triade rivoluzionaria – libertà, uguaglianza, solidarietà – sia il perno fondamentale delle nostre relazioni politiche e sociali. Quando questo perno salta saremmo di fronte ad eccezioni che confermano la regola, o a difetti correggibili.

In realtà è l’esatto contrario. La democrazia non viene tradita, semplicemente si mostra senza veli, tradendo la propria intima natura. Una natura basilarmente ambigua, poiché il sistema democratico è fondato su un’uguaglianza del tutto astratta. Poveri, donne, omosessuali, stranieri sono rimasti a lungo esclusi dai diritti connessi alla cittadinanza, mai raggiunti pienamente in ogni dove la democrazia sia divenuta fondamento ideale dell’agire politico.


La democrazia è uno dei tanti modi di ricambio delle elite al potere. Il suo successo è determinato dalla convinzione diffusa che garantisca a tutti l’accesso alla sovranità. Un’idea che offre ampi margini di consenso all’intero sistema. Chi lo attacca è inevitabilmente nemico non solo del governo ma anche del popolo. Leggi speciali, stato di emergenza, militarizzazione, inasprimento dell’apparato repressivo sono diretta conseguenza di quest’impianto.
La democrazia, con l’emergenza, non nega se stessa. Anzi. Chi denuncia le violenze della polizia, chi si indigna è trattato da nemico o da sciocco che pratica l’intelligenza con il nemico. Ma è comunque utile, perché rinforza l’opinione che vi sia spazio per il “dissenso” purché la critica non si traduca mai in azione, purché nessuno si metta mai di mezzo.

Di fronte alla criminalità del potere, tanti parlano di “democrazia tradita”. Un’illusione pericolosa, perché sorregge la convinzione che questo sistema sia correggibile, che la violenza delle forze dell’ordine, la ferocia della macchina delle espulsioni, l’inumanità delle galere, la tortura nelle caserme, i pestaggi nei CIE e per le strade, le facce spaccate dai manganelli, le gole bruciate dai lacrimogeni, i lavoratori che muoiono di lavoro, i veleni che ammorbano la terra siano eccezioni, gravi, estese, durevoli ma eccezioni. La democrazia avrebbe in se gli anticorpi per eliminare i mali che la affliggono, per correggere la rotta.

La democrazia reale traccia una linea tra cittadini e non cittadini, che va al di là del confine formale dello stato, che pure si rinforza e militarizza, perché il confine attraversa le nostre città, i nostri quartieri, finanche le nostre relazioni umane.

La trincea della paura è la metafora più efficace. In trincea non c’è altro orizzonte che quello del filo spinato oltre la sponda, dove i nemici sono pronti ad affondare le baionette nella carne viva. Il nemico diventa nemico assoluto, irriducibile ad ogni possibile riconoscimento nell’universalità dell’umano. La stessa nozione di “diritto umano”, sulla quale si giocano formali partite sulla misura della altrui civiltà, diviene alibi di guerra, pur nella maschera dell’intervento umanitario.

I governi europei sanno di non potersi riparare dalle bombe nelle metropolitane, dagli jiahdisti della porta accanto, perché sono consapevoli di aver contribuito attivamente ad alimentare il vento che porta i semi della guerra santa.
Il retaggio degli orrori coloniali riemerge carsico ed alimenta prepotentemente la propaganda della jihad, che si nutre degli orrori di trent’anni di guerre per la democrazia. In Iraq, Afganistan, Siria, Mali…

La propaganda razzista sostiene che nei barconi dei profughi e dei migranti si annidino pericolosi terroristi, fingendo di ignorare che la jihad è sostenuta da paesi ricchi e potenti come Arabia Saudita e Quatar, alleati delle democrazie occidentali, che non hanno esitato ad sostenere la jihad pur di spostare a proprio favore gli equilibri geopolitici. I guerrieri della jihad viaggiano in aereo, molti vivono in Europa.

I profughi e i migranti dei barconi hanno negli occhi le città distrutte, il fosforo bianco, i coltelli degli uomini della jihad, le orbite vuote dei loro figli torturati dai militari turchi, le bombe dei russi, dei francesi degli statunitensi che bruciano le loro case. Sembrano tutti uguali con le coperte, i figli al collo, una valigia con quello che resta. In realtà hanno storie diverse, storie di gente comune che non fa la storia, che cerca di vivere al di là della tempesta. Io immagino che le persone che arrivano qui siano come i miei parenti tra il ’43 e il ’45: nei loro racconti c’è fame, paura, scarpe rotte, la cantina che trema, lo sfollamento in campagna. Poca politica, tanta vita quotidiana, perché la politica è altrove, pericolosa e ambigua.

Se e quando le esperienze di vita si fa(ra)nno memoria condivisa difficile pensare che le sirene delle democrazie potranno sedurre. Perché chi scampa alla guerra e al viaggio trova polizia, campi, frontiere serrate e muri sempre più alti.
Solo spezzando l’illusione democratica possiamo alimentare pratiche capaci di far saltare il banco.
L’indignazione che rivendica una purezza tradita puntella la democrazia reale. L’indignazione che innesca le lotte, che prova ad inceppare la guerra, offre un’opportunità di rompere l’immaginario che la alimenta.

Quest’estate, mentre sui media imperversava il dibattito sul costume da bagno delle ricche musulmane sulle spiagge della Costa Azzurra, a pochi chilometri poliziotti italiani e francesi picchiavano ed arrestavano chi lottava contro le frontiere.
Lungo un confine fatto di nulla si prova a far sì che libertà-uguaglianza-solidarietà non siano vacui principi, ma si facciano carne e sangue.
Il nostro tempo ha conosciuto tante rivolte, ma solo qualche spiraglio di rivoluzione. Da anarchica il mio interesse alla riflessione si flette alla necessità di rompere l’ordine costituito. Una riflessione feconda attinge i materiali che la costituiscono dall’esperienza viva della lotta sociale, così come l’azione politica e sociale si nutre di un’analisi costante della realtà, del confronto diretto tra compagni, dell’impegno a tendere i fili di un’agire quotidiano inadeguato verso un più ampio orizzonte di trasformazione.

In tempi come questi l’altrove appare inattingibile. Sul piano simbolico non meno che nella materialità feroce del nostro vivere.
Eppure, proprio in tempi come questi, l’unica alternativa alla barbarie è la pratica dell’anarchia. Non ideale demandato al domani, ma oggi che nel conflitto con il presente costruisce e prefigura pezzi di futuro. Si costruisce nel conflitto: la lotta si alimenta e sedimenta nel fare di ogni giorno, nei percorsi di libertà concreta, nella pratica della solidarietà.
Articolare un discorso – la cui trama sottesa resta quella dell’anarchismo sociale – capace di affrontare la sfida di un tempo che vive d’effimero ma soggiace alla fascinazione di narrazioni dall’acido sapore di restaurazione, non è facile.
Frecce al nostro arco ce ne sono. Rompere l’immaginario dominante e incrinare sfruttamento e oppressione sono percorsi contestuali, intrecciati, inscindibili. La rottura dell’ordine materiale apre talora crepe nell’ordine simbolico, che a loro volta rinforzano e radicalizzano le lotte.
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)

Posted in controllo, immigrazione, Inform/Azioni, razzismo, repressione/solidarietà.

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