La partita reale e quella simbolica
I miti fondatori, quelli che cementano l’immaginario, hanno lo straordinario vantaggio di non necessitare dell’onere della prova.
La Costituzione nata dalla Resistenza è uno di questi. I sostenitori del rigetto della riforma costituzionale sulla quale si terrà il 4 dicembre un referendum confermativo, ripetono come un mantra le parole di Calamandrei: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati.
Dovunque è morto un Italiano (maiuscolo!) per riscattare la libertà e la dignità della nazione, andate là, o giovani, col pensiero, perché là è nata la nostra costituzione.”
Questa frase coagula un nucleo emozionale potente. L’identificazione tra la Resistenza (con la maiuscola) e la Costituzione
repubblicana trasforma il no al Referendum in una crociata antifascista. Chi non partecipa al gioco è considerato un nemico o un ignavo incapace di cogliere il momento cruciale.
Difficile, anche se non impossibile, smontare questa narrazione, perché essa trae il proprio alimento da un sentire diffuso, difficile da interrogare con le mere armi della critica, nei fatti impermeabile perché si nutre di una Resistenza ormai mitica e, quindi, storicamente inattingibile.
Tuttavia l’epopea partigiana è ed è stata nocciolo sentimentale di tante esperienze diverse, da consentire, anche sul piano inclinato della retorica, di cogliere linee di cesura, capaci di incrinare il Mito, facendo riemergere se non la storia, una memoria non condivisa e pacificata. Quella della lotta antifascista dagli anni Venti alla seconda metà degli anni Quaranta, quella di chi, riconoscendosi nella componente rivoluzionaria dell’epopea partigiana, ha intrecciato i fili delle lotte di ieri con quelle di oggi.
Una parte importante di chi ha combattuto il fascismo e la dittatura non si sarebbe potuta riconoscere nella frase di Calamandrei, perché quei partigiani non erano “Italiani [che volevano] riscattare la libertà e la dignità della nazione”, ma internazionalisti che lottavano perché la resistenza al fascismo si trasformasse in rivoluzione.
Nessuno di loro si sarebbe identificato tra i padri e le madri della Repubblica nata dalla Resistenza, perché nessuno di loro voleva una società di classe, perché molti rigettavano il patriottismo, lo stato e la sua pretesa di avocare a se il monopolio della violenza.
Come è finita è noto. La Resistenza venne disarmata e poi imbalsamata nella guerra di liberazione nazionale, i partigiani che continuarono la lotta dopo il 25 aprile, quelli che l’avevano iniziata ben prima dell’8 settembre 1943, finirono in carcere, mentre Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista e ministro della giustizia, firmava l’amnistia per i fascisti. Tutto cambiò, ma molto di quello che contava rimase come prima.
La lunga teoria di stragi di Stato che ha segnato il percorso della Repubblica nata dalla Resistenza, ne è il segno, perché la stessa funzione pacificatrice della socialdemocrazia in salsa PCI, stentò ad imporsi in un paese, dove forte era la tensione a volere di più che la fine della guerra e del fascismo, in un paese dove i fascisti, sconfitti, ma saldamente ai loro posti nei gangli della macchina statale, continuarono ad operare.
Ogni riferimento ideale alla Resistenza che non ne colga le fratture si trasforma in mero espediente retorico utile all’ammucchiata referendaria, del tutto vano in una prospettiva di radicale trasformazione sociale.
A Torino il Procuratore Capo Spataro, successo a Caselli nel perseguire i resistenti della Libera Repubblica della Maddalena, si è schierato apertamente per il no alla riforma costituzionale. Anche l’Anpi che, tranne in poche sezioni, ha condannato i No Tav, ha fatto la stessa scelta.
Le linee di cesura erano chiare nel 1945, lo sono ancora oggi per chi le vuole vedere.
Alla Maddalena di Chiomonte nella primavera del 2011 visse una Libera Repubblica, il cui richiamo ideale alle repubbliche partigiane era forte. E forte era la consapevolezza che la sottrazione di una porzione di territorio al controllo dello Stato e alle brame dei padroni amici del governo era un gesto sovversivo, radicale. Chi sedeva sulle poltrone di palazzo Chigi non poteva permetterlo: in gioco c’era ben più che un lucroso affare di treni. La libera Repubblica di Chiomonte era un avamposto resistente di pochi chilometri in mezzo ai monti, ma alludeva sul piano simbolico e reale, alla possibilità che si potesse fare a meno dello Stato, del capitalismo, della polizia, dell’esercito.
Il primo gesto della polizia dopo lo sgombero e l’occupazione fu issare alta sul piazzale del museo archeologico, vuotato e trasformato in bivacco per le truppe di occupazione, una bandiera tricolore, simbolo della Repubblica nata dalla Resistenza.
A cinque anni da quella primavera di lotta, un movimento in chiara difficoltà, si rifugia nella battaglia referendaria, accanto al capo della Procura di Torino. E a tanti altri, persino peggiori.
Mala tempora currunt.
La Costituzione più bella del mondo?
La Costituzione della Repubblica Italiana difende la proprietà privata, affida allo Stato il monopolio legittimo della violenza, garantito da polizia e forze armate, prevede tribunali, carceri, guerre, confini…
E la “nuova” Costituzione sottoposta a referendum confermativo? Anche!
Nei fatti la distanza tra la costituzione formale e quella reale è sempre stata grande. L’Italia è in guerra da trentacinque anni, senza che queste guerre siano mai state proclamate. Di fronte alla durezza di questo fatto, che importanza ha lo snellimento della procedura per dichiarare guerra? Si tratta di un semplice adeguamento della Costituzione formale a quella reale.
Le leggi, quelle generali che definiscono l’ordinamento dello Stati, come quelle ordinarie, sono spesso niente più che la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Non solo. La codifica in legge delle istanze dei movimenti popolari imbriglia le tensioni che si sono espresse con forza dirompente, rinchiudendole in una gabbia normativa.
Il job act renziano è il momentaneo punto di approdo di tre decenni di smantellamento di un sistema di tutele e garanzie, che fu il precipitato normativo di lotte le cui ambizioni erano ben più ampie. L’esaurirsi della spinta propulsiva di quelle lotte ha aperto la strada alla reazione.
Le donne (e gli uomini) che in Italia si sono battuti per la depenalizzazione dell’aborto e per la libera maternità, non volevano una libertà monca, delimitata da una legge, frutto del compromesso tra il mondo cattolico e le istanze libertarie e laiche, che attraversavano potentemente la società.
Oggi scegliere è sempre più difficile, perché i pesanti limiti di quella legge vengono usati contro la libertà femminile, senza che vi sia una significativa spinta da parte dei movimenti.
Sono solo due esempi della concretezza delle argomentazioni di chi si sente estraneo ed ostile alla partita referendaria, perché l’illusione che la battaglia sulla Costituzione sia di quelle decisive nasconde una realtà che andrebbe affrontata nella sua crudezza.
L’attuale governo – come quelli che l’hanno preceduto – ha affondato le lame nel corpo sociale con la facilità con cui il coltello si infila nel burro.
La distanza tra la Costituzione formale e la Costituzione reale dimostra che le stesse regole del gioco del potere sono solo una vetrina da lustrare nelle cerimonie ufficiali tra il 25 aprile e il 2 giugno. Una vetrina che certa sinistra, radicale e non, sta lucidando per mettere in scena un’opposizione al governo che stenta a crescere nella società e si rifugia nel gioco referendario, dove c’è ressa per partecipare alla partita dei tutti quanti assortiti contro Renzi.
Il gioco politico
Se il richiamo al mito è il cemento sentimentale, la caduta del governo, che ha profanato la sacralità della Resistenza, diviene l’obiettivo concreto, sul quale coagulare un fronte ampio.
Una sinistra in cerca d’autore ha deciso di giocare la carta referendaria per tentare di uscire dal pantano in cui si trova da anni. Quel che resta della Sinistra radicale punta su un rilancio che la ri-proietti nella sfera istituzionale. I post-autonomi invece mirano a candidarsi a punto di riferimento di una galassia extraistituzionale, che possa godere di qualche patronage da parte di un governo pentastellato.
Il fronte del No è attraversato da numerose linee di cesura, che tuttavia, si ricompongono intorno all’obiettivo.
Leghisti, fascisti, pentastellati, rifondati ed antagonisti andranno tutti a votare No per cacciare Renzi. Anche la minoranza dello stesso PD voterà No per indebolire il governo.
Renzi, tradito dalla propria arroganza, ha gettato sul piatto la propria poltrona di primo ministro, lanciandosi nella bocca del leone. E’ riuscito a coagulare contro di se un variegato fronte di opposizione, non ultima la minoranza del PD, che vorrebbe indebolirlo, ma non ha interesse a farlo cadere.
Nei fatti la partita interna al PD è di gran lunga la più interessante, perché mostra nella sua crudezza, la feroce lotta di potere, nella quale la riforma costituzionale è solo un feticcio. La minoranza del PD, che in parlamento è però maggioranza, non può permettersi di far cadere direttamente il governo, ma sa di essere destinata scomparire se la legge elettorale non cambierà, per cui si sta giocando le ultime carte prima di una possibile scissione.
Renzi sa che probabilmente perderà e naviga a vista per restare a galla.
Le destre, messe nell’angolo dalla perdurante anomalia grillina, che in parte ne ha mutuato i programmi e gli obiettivi, sperano in un rilancio, forti del vento che spira forte dall’Europa, che tuttavia potrebbe continuare a gonfiare le vele dei penta stellati.
Gli ingredienti della propaganda per il no sociale sono un misto di buoni sentimenti e richiami al realismo. Un minestrone strano ma efficace, visti gli ampi consensi che vi si sono coagulati intorno.
Nei fatti un espediente per restare a loro volta a galla, un espediente che rischia di distogliere l’attenzione dall’urgenza della questione sociale, tentando di incanalarne le tensioni in una partita referendaria, dove si decide se mantenere o meno il bicameralismo.
Gli antagonisti hanno trovato la formula magica che risolve tutti i problemi. Votare No alla riforma costituzionale voluta dal governo, per far cadere Renzi e mandare al suo posto i 5 stelle, un partito autoritario, giustizialista, razzista.
Il gioco della Carta Costituzionale è come quello delle tre carte: non si vince mai. O, meglio, vince il ceto politico, vincono i populisti, il popolo del no euro, quello degli spaventati dalla finanziarizzazione dell’economia. Non si caccia un mostro evocandone un altro. Il Godzilla che esce dalle acque del Mediterraneo è un mostro nazionalista, che si nutre di muri e filo spinato, che sogna il protezionismo e l’autarchia. Può sconfiggere Renzi, come Trump ha sconfitto Clinton.
La paura fa Novanta, ma la paura è, questa sì, l’arma dell’estrema destra, del fascismo che ritorna, del grande complotto contro la compagine grillina.
D’altra parte il rischio, forse consapevole, del caos sistemico, li attrae, come qualche anno fa i forconi tricolori per le strade di Torino. Camminare sul filo è eccitante ma rischioso.
Imitare Togliatti e il vecchio PCI è la tentazione ricorrente degli antagonisti del terzo millennio, accecati dalla follia del ritorno di un passato che (fortunatamente) non ritorna. Giocano la loro partita tra penetrazione nelle cooperative, festival come quello dell’Unità, flirt istituzionali e movimenti sociali.
Su quest’insieme eterogeneo di pratiche imprimono il marchio del realismo contro l’utopia vana, “ideologica”, di chi non accetta il gioco e sceglie il rifiuto.
Il rifiuto di cacciare Renzi per far governare Di Maio. O Salvini, Berlusconi…
Cacciamoli tutti! Vadano via tutti!
Tra chi governa o aspira a governare noi rifiutiamo di scegliere, scegliamo il rifiuto. Non vogliamo decidere la foggia delle nostre catene, perché vogliamo spezzarle, nella chiara consapevolezza che la strada è tutta in salita, irta di ostacoli.
Nell’altrettanto chiara consapevolezza che l’urgenza del momento, non consente scappatoie.
Noi non vogliamo né padroni, né padrini. Non vogliamo il caos. Sappiamo che percorsi di libertà, di uguaglianza di mutuo appoggio si nutrono dell’autonomia del corpo sociale dal quadro politico istituzionale, perché solo nella pratica si sedimenta l’immaginario che costruisce, giorno dopo giorno, nel conflitto e nella sottrazione dall’istituito, il mondo che vogliamo.
Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali, le occupazioni e riappropriazioni dal basso degli spazi di vita.
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.
I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Torinese