Il nuovo governo si è presentato questa mattina alla Camera dei deputati, per chiedere la fiducia. La squadra capitanata da Gentiloni, è di 18 ministri, 12 dei quali già presenti nel governo Renzi.
Sebbene molti considerino il nuovo governo un clone di quello precedente, qualche indizio suggerisce che Gentiloni smorzerà le punte più aguzze della politica renziana. Nel suo discorso il primo ministro ha posto l’accento sulla questione meridionale e sulle difficoltà che il governo dovrà rappresentare. Una narrazione che, pur inserita nel tessuto ordito dal suo predecessore, se ne distacca per stile e toni.
Gentiloni ha chiarito che il suo non è un governo di scopo, né di transizione: il nuovo primo ministro intende governare finché avrà la fiducia.
Contro questa prospettiva si muovono forze ed interessi diversi. Da un lato la Lega e il Movimento 5 stelle, che oggi sono saliti sull’Aventino, dall’altro lo stesso Renzi, che scalpita per elezioni a giugno, dopo l’approvazione di una nuova legge elettorale.
Va da se che con l’Italicum, doppio turno e premio al partito di maggioranza, potrebbe facilmente riprodursi lo schema già visto alle comunali di Roma e Torino, e, prima di Parma e Livorno: il M5S che vince al ballottaggio con il PD, grazie all’appoggio di tutti (o quasi) gli altri partiti.
In questo momento il PD e probabilmente Forza Italia puntano ad una legge elettorale proporzionale, che favorisca le alleanze, mettendo nell’angolo il M5S.
Oggi,leggendo gli editoriali di Stampa e Corriere, emergeva in modo chiaro che la borghesia italiana punta ad un governo che arrivi a fine legislatura. Sebbene nel tempo il M5S sia riuscito a divenire un interlocutore affidabile per i blocchi di potere della penisola, resta il fatto che offre migliori garanzie l’usato sicuro piuttosto che il nuovo fresco di mercato.
D’altra parte sinora il PD ha saputo garantire politiche economiche e sociali tali da garantire e favorire la perpetuazione dell’ordine costituito, con pochi rischi di conflitto sociale diffuso.
E’ quindi possibile che Gentiloni abbia qualche chance di traghettare la propria compagine governativa sino alla primavera del 2018.
Chi si era illuso che tutto cambiasse dopo il referendum, deve fare i conti con il fatto che è bastato sostituire un cocchiere arrogante ad avventato con uno più pacato e prudente, per rimettere in viaggio la carrozza.
Chi invece si indigna perché Mattarella non ha sciolto le Camere ed indetto nuove elezioni, evidentemente conosce poco la Costituzione che ha difeso come ultimo baluardo di libertà.
Nella Costituzione non è prevista l’elezione diretta del governo e l’incarico di formarne uno spetta, in primis, al partito di maggioranza relativa, che in questo caso è il PD.
Va da se, invece, che il governo Gentiloni dovrà fare i conti sullo slittamento di senso assunto dal referendum costituzionale, dopo la scelta, decisamente avventata di Matteo Renzi di trasformare il si e il no in un giudizio sul suo governo.
Il “licenziamento” di Giannini pare essere un tentativo di recupero del consenso perduto tra i lavoratori della scuola, tradizionalmente bacino di consenso per il PD.
Tutto questo, va da se, è un gioco che vale finché le pur palpabili tensioni sociali ri-troveranno la via della sottrazione conflittuale dall’istituito. Altrimenti, a metà boa degli anni Dieci, rischiamo di realizzare la più triste delle profezie dei Nostradamus della Prima Repubblica e ci toccherà, comunque vada, morire democristiani.
Ascolta la diretta dell’info di blackout con Stefano Capello.