Gli accordi sull’immigrazione sottoscritti dal governo italiano e da quello libico il 2 febbraio, fatti propri dall’Unione Europea il giorno successivo, mirano a riprodurre la situazione del 2008 e del 2009, quando un patto simile venne sottoscritto dal governo Berlusconi e dal governo Gheddafi.
Quell’accordo costò all’Italia una condanna della Corte Europea per i diritti umani, che riempì le pagine dei quotidiani per un giorno. Il costo, in vite umane, è difficile farlo, perché il Mediterraneo e il deserto ingoiano le loro vittime nel silenzio e nella lontananza. Nelle prigioni libiche torture, stupri, compravendita di prigionieri è la norma.
Per anni la rotta libica si interruppe. La gente in viaggio fu obbligata a scegliere altre strade, non meno pericolose, come quella attraverso l’Egitto e la penisola del Sinai.
L’accordo siglato a Roma dal governo Gentiloni e da quello Al Sarraj difficilmente otterrà i risultati sperati da Roma. La Libia, dopo la guerra e la caduta del regime di Gheddafi, è un paese diviso in tre, dove il potere del governo al Sarraj, quello riconosciuto dalla comunità internazionale, non controlla a pieno nemmeno la capitale. A est è il regno del generale Haftar, sostenuto da Egitto e Francia, al centro governa Ghwill. Nessuno dei due ha accettato l’accordo di Roma.
In compenso per i migranti in viaggio la vita è ancora un terno al lotto. Uccisioni, torture, stupri e ricatti verso uomini, donne e bambini sono “normali”.
L’accordo italo-libico prevede la consegna alla guardia costiera libica di 12 pattugliatori, già in loro possesso, oggi in riparazione in Tunisia e in Italia. Peccato che la guardia costiera libica sia parte attiva nel business dell’immigrazione. Un business che rappresenta una delle più importanti fonti di reddito per un paese piegato da sei anni di guerra, le cui classi medie si sono impoverite.
Gli immigrati sono il bancomat della Libia. Ciascuno di loro ha in tasca almeno duemila euro, raccolti dalle famiglie nei paesi d’origine: un bel bottino per i trafficanti. Nelle infernali galere libiche sono i guardiani, uomini delle milizie che controllano il paese, sequestrano i telefonini e chiamano le famiglie, chiedendo un riscatto per i loro cari. Le torture servono a strappare più soldi.
L’informazione di radio Blackout ne ha parlato con Francesca Mannocchi, reporter free lance, che è stata più volte in Libia da dove ha fatto reportage per varie testate e TV italiane, ma non solo.
È lei che, entrando in Sirte dopo la liberazione dall’ISIS, scoprì la terribile verità sulle “donne dell’Isis” rinchiuse nella prigione cittadina. Quando il suo gruppo di giornalisti e reporter è entrato nel carcere di Sirte ha scoperto che le donne che vi erano rinchiuse erano le schiave dei miliziani, immigrate violentate, vendute, picchiate dai loro padroni. Queste donne, spesso ragazze giovanissime, raccontano storie terribili.
Oggi sono ancora in prigione: per i “liberatori” di Sirte restano immigrate clandestine.
Francesca racconta la storia di un ragazzo africano malato di tubercolosi. Ha 24 anni ed è rinchiuso in una gabbia: nessuno gli da le medicine che gli servirebbero per curarsi, nessun volo lo prenderebbe mai a bordo per riportarlo nel suo paese, con il quale, comunque, non ci sono collegamenti diretti. Di fronte alla sua gabbia c’è l’ospedale costruito dagli italiani. Lui morirà in quella gabbia.