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Otto marzo. Primavera di lotta

8 marzo sciopero generale contro la violenza di genere
Mimose, cene tra donne, retorica istituzionale sono diventate la cifra prevalente di tanti otto marzo. La giornata della libertà femminile si è trasformata in una sorta di San Valentino in rosa, dove fiori gialli si depositano sulle scrivanie, i banconi dei supermercati, al capezzale della nonna malata, sulle tute delle operaie. O magari infilzate tra la verdura nelle sporte delle casalinghe. Una festa innocua, dove si lavora e si vive come ogni altro giorno, dove la violenza quotidiana è rappresentata con scarpe e panchine dipinte di rosso.
Il femminismo si trasforma nel mero retaggio di un’epoca passata, assorbita in una parità formale, emendata dagli “eccessi” di chi, a partire da se, voleva sovvertire l’ordine. Morale, economico, gerarchico. Lo stigma dell’ideologia è lo strumento preferito dai nemici della libertà femminile. Uno stigma inappellabile che mira a trasformare un movimento sovversivo in una parentesi breve e folcloristica.
Da qualche tempo tira un’aria diversa. Un’aria che attraversa il pianeta, un’aria che lo scorso 26 novembre ha portato 200.000 persone ad attraversare le strade di Roma.
L’8 marzo è stato promosso uno sciopero generale contro la violenza maschile sulle donne, uno sciopero politico, come politico è il misconoscimento della violenza, declinata in affare privato, personale, accidentale.

Femminismi e violenza di genere
Il movimento femminista cresciuto negli ultimi anni pone al centro la questione dell’identità, che non è biologica, ma politica e sociale. Questo movimento sta smontando la logica binaria che ha segnato altri percorsi. Una logica che mira al mero enpowerment femminile, con metodo lobbysta, che non spezza l’ordine gerarchico, ma tenta solo di scalarlo.
Oggi quel femminismo, quello della differenza, è ai margini di un movimento che ha fatto propria una prospettiva transfemminista e intersezionale.
Una prospettiva che colloca la lotta al patriarcato nei bivi dove si incrocia con questioni come la classe, la razza, la gerarchia.
Questo movimento sta cercando, tramite il confronto e la ricerca del consenso, di articolare un discorso pubblico sulla violenza contro le donne. Una violenza che ha i caratteri espliciti di una guerra planetaria alla libertà delle donne, alla libertà dei generi, alla libertà dai generi.
Gli spazi di autonomia che le donne si sono conquistate hanno incrinato e a volte spezzato le relazioni gerarchiche tra i sessi, rompendo l’ordine simbolico e materiale, che le voleva sottomesse ed ubbidienti. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi dimostra che la strada della libertà femminile è ancora molto lunga.
Il carattere disciplinare, punitivo della violenza maschile, nella descrizione tossica proposta dai media scompare. Dietro la supposta empatia con le vittime si cela uno sguardo obliquo, sin troppo consapevole del rischio insito nel riconoscimento del carattere eminentemente politico di gesti, che vengono circoscritti nella sfera delle relazioni, degli “affetti”, della “follia d’amore”. Ti amo da morire, ti amo tanto che decido di farti morire. Un alibi classico, divenuto parte della narrazione prevalente della violenza contro le donne.
Pestaggi, stupri, assassini, molestie finiscono sempre in cronaca nera, con pericolose oscillazioni in quella rosa.
Il dispiegarsi violento della reazione patriarcale viene ridotto ad uno scenario dove le donne recitano la parte delle vittime indifese, gli uomini violenti sono folli. La follia sottrae alla responsabilità, nascondendo l’esplicita intenzione disciplinante e punitiva.
La violenza maschile sulle donne è un fatto quotidiano, che nello specchio distorto dei media diventa una momentanea rottura della normalità. Raptus di follia, eccessi di sentimento nascondono sotto l’ombrello della patologia una violenza che esprime a pieno la tensione diffusa a riaffermare l’ordine patriarcale.
Se il carattere politico della violenza divenisse parte del discorso pubblico, avrebbe una potenza deflagrante, mettendo in soffitta l’ipocrisia delle quote rosa, delle pari opportunità, dei parcheggi riservati alle donne.
Tra i temi di questo 8 marzo di sciopero e lotta, la ferma volontà di rompere il silenzio e l’indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa contro chi ci inchioda nel ruolo di vittime.
Forte è il rifiuto che la difesa delle donne diventi l’alibi per politiche securitarie, che usano i nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull’intera società.

Il lavoro rende libere?
La critica femminista mostra le aporie di un discorso sull’eguaglianza, che si infrange nella materialità del vivere quotidiano, nei licenziamenti firmati in bianco, nel lavoro di cura non retribuito, nei ricatti e nelle molestie sessuali.
La crescita di precarietà e disoccupazione e la necessità di un reddito autonomo, nel dibattito in vista dell’8 marzo ha prodotto una nuova declinazione del “reddito di cittadinanza” traslato in “reddito di autodeterminazione”, da cui emerge con termini innovativi una trama logora. E pericolosa. Affidare alla tutela statale la propria autonomia è un ossimoro, figlio di una perdurante illusione statalista. Più interessante la tensione a liberarsi dalla condanna ai lavori di cura non retribuiti, che non trasferisca la servitù sulle donne più povere, spesso immigrate, sottoposte alla pressione familiare ed al ricatto delle leggi sul soggiorno.
L’intersezione tra la critica al lavoro salariato e alla società di classe e la lotta al patriarcato è un nodo da sciogliere.
Una riflessione seria sulla crescita di ambiti pubblici non statalizzati, né mercificati potrebbe aprire percorsi di sperimentazione che sciolgano le donne dal lavoro di cura, liberando dalle gabbie istituzionali bambini, anziani, disabili. Smontare il concetto di famiglia, per dar spazio ad una dimensione sociale più ampia, includente, libera, è un obiettivo che apre alla possibilità libera le donne dal lavoro di cura, in una prospettiva autogestionaria.

Salute e libertà
Le donne muoiono di parto e di aborto, perché la chiesa cattolica sta estendendo il proprio potere negli ospedali pubblici.
Discutere sul diritto all’obiezione di coscienza è una trappola, in cui è sin troppo facile cadere. Sull’Avvenire di qualche settimana fa, in risposta all’assunzione di due medici non obiettori al San Camillo di Roma, è comparso un editoriale in cui l’obiezione è indicata come strada maestra per rendere impossibile scegliere di abortire. Il vero nodo è la legge 194, la legge che, dopo la depenalizzazione dell’aborto, pose dei limiti alla libertà di scelta delle donne.
La 194 è una gabbia normativa, che i nemici della libertà femminile hanno imparato a usare. Viene confermato il principio che le leggi sono la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Tante leggi, a posteriori definite “conquiste” sono state limitate concessioni a movimenti che miravano a ben di più.
Tra i punti dello sciopero dell’8 marzo c’è l’abolizione dell’obiezione di coscienza. Pur comprendendo e condividendo le ragioni di questa rivendicazione ritengo che si debba lavorare in altra direzione, perché la chiesa cattolica non ha alcun primato morale e sarebbe poco saggio regalargliene uno.
La questione non è la libertà dei medici di rifiutare di agire contro la propria coscienza, ma che si diano le condizioni perché nessuno limiti la libertà di scelta delle donne, perché nessuno ne metta repentaglio le vite, perché nessuno possa ricattarci, umiliarci, piegarci. Eravamo fuorilegge, siamo state messe sotto l’ombrello della legge, è tempo che si lotti per essere davvero libere, senza legge.

I sindacati e lo sciopero dell’8 marzo
I sindacati, cui era stato fatto l’appello per l’indizione dello sciopero, hanno giocato la loro partita di immagine, senza tuttavia contribuire realmente a costruirlo.
Alcuni sindacati di base, USB, USI-AIT, SLAI Cobas, Cobas, hanno indetto lo sciopero generale, offrendo copertura alla giornata. Altri, come la Cub, lo hanno indetto solo in alcuni settori, come sanità e trasporti. Chi aveva indetto sciopero nella scuola per il 17 marzo ha respinto la richiesta di convergere sull’8, nel timore che le rivendicazioni di quello sciopero, venissero oscurate da quelle emerse dalle assemblee femministe. Una evidente miopia, visto il netto schieramento di Non Una di Meno contro la Buona Scuola varata dal governo Renzi.
Ambigua, ma molto corteggiata, la Cgil, facendo leva sulla diffusa ignoranza sulla libertà di sciopero, ha boicottato lo sciopero indicendo assemblee sindacali durante l’orario di lavoro. In corner la Cgil ha indetto sciopero nella scuola, mettendo a segno un doppio risultato, catalizzare la categoria sull’8, mettendo in difficoltà il sindacato di base ormai attestato sul 17, e recuperando parte dei consensi perduti non proclamando lo sciopero generale per l’8.
Ciascuno ha fatto il proprio gioco delle tre carte in una sfida che nessuno ha voluto cogliere sino in fondo.

La scommessa del femminismo libertario
“Non una di meno” è un impegno che ciascuna si è presa con quelle che non ci sono più, nella consapevolezza che formulare un discorso politico ed un percorso di lotta sulla violenza è il primo passo per disarticolarla.
Lo sciopero, lanciato dalla rete delle argentine di Ni Una Menos, si è esteso a decine di altri paesi, tra cui l’Italia, dove in pochi mesi è nata e si sta sviluppando la Rete Non Una di Meno. È un percorso in crescita veloce, ma non sempre facile.
Il grande successo di questo movimento lo pone sul ciglio di un pendio scosceso, dove si intersecano modalità libertarie e tentazioni accentratrici, seduzioni stataliste e spinte autogestionarie, giochi istituzionali e radicalità politica. Il tutto condito da grande partecipazione, entusiasmo, voglia di fare e di mettersi in gioco. Non Una di Meno potrebbe essere importante laboratorio oppure normalizzarsi presto in strutture permanenti, incarichi rigidi, tutele politiche.
La partita è ancora aperta. Dipenderà anche dall’impegno dei libertari se la natura fluida, eccentrica, plurale di questo movimento riuscirà a durare e a costruire nel tempo spazi aperti di confronto e lotta.
Le assemblee locali sono i luoghi dove questa partita si può giocare meglio, perché più diretto è il rapporto con il territorio, più semplice la partecipazione, più chiare le partite di potere delle componenti autoritarie e riformiste.

Buon Otto Marzo!

maria matteo

Posted in femminismi, Inform/Azioni, lavoro.

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