“Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori e di promuovere interventi volti al mantenimento del decoro urbano”
Il decreto legge sulla sicurezza urbana del ministro dell’Interno Minniti comincia così.
Ogni parola ricalca la logica con cui da quarant’anni in Italia vengono affrontate le questioni sociali e i movimenti di lotta anti istituzionali.
Tutto è racchiuso nei tre termini chiave dell’incipit, sapientemente incardinati gli uni negli altri per rendere indispensabili, indifferibili, immodificabili le nuove norme.
“Straordinaria necessità ed urgenza”.
Siamo in costante stato di emergenza, pressati da urgenze e necessità che urlano. Urlano sulle pagine dei quotidiani del governo e delle opposizioni.
L’emergenza ha giustificato, governo dopo governo, misure repressive che hanno allargato la linea di cesura tra le classi, eretto muri, trasformato il Mediterraneo in un cimitero di guerra.
Poveri, immigrati, senza casa, profughi sono nel mirino. È la loro stessa esistenza ad essere messa in discussione.
L’Italia non è l’Africa, né gli Stati Uniti. I poveri non vivono in ghetti e slum separati, lontani dal centro, dai mezzi di comunicazione, controllabili da apparati polizieschi che sorvegliano che nessuno si avventuri fuori. Distanza, mancanza di mezzi pubblici o privati, persino barriere fisiche separano il mondo di sopra da quello di sotto. Cosa succeda lì non importa a nessuno. Gli scarti, gli inutili, quelli che vivono sul margine e “del” margine, sono stipati in aree che sono enormi discariche umane. In certe megalopoli africane o asiatiche la discarica è ben più di una metafora, è il luogo dove sorgono le baracche, costruite con i rifiuti da gente che vive di rifiuti.
In Italia campano di raccolta, riuso e vendita di rifiuti solo i rom rumeni e slavi.
I braccianti stagionali immigrati delle nostre campagne abitano in ghetti tra tende, plasticoni e accrocchi di lamiera.
Gli altri poveri, quelli delle città, italiani ed immigrati, stanno accanto ai meno poveri, non lontani dai ricchi.
I nuovi poveri
La povertà sta aggredendo anche chi, sino ad un paio di decenni fa, credeva di essere al sicuro. Casa di proprietà, lavoro, pensione, qualche soldo da parte, i figli all’università. Oggi tante delle certezze che facevano sentire al riparo il piccolo ceto medio sono scomparse, frantumate. Il futuro non è più quello di una volta.
In questi settori pesca a mani nude la destra sociale nelle sue varie incarnazioni, da quelle più brutali a quelle più paludate. A fare il miglior raccolto sono i pentastellati, che mescolano la retorica partecipativa con le seduzioni di una leadership carismatica puntellata da un pizzico di partito/azienda ereditario.
Tra bancarellari e tassisti, piccoli commercianti e impiegati alligna l’illusione che sicurezza e decoro siano due facce della medesima medaglia.
A Torino la sindaca a Cinquestelle ha promesso ai comitati spontanei di quartiere, tutti o quasi promossi dall’estrema destra xenofoba e razzista, la possibilità di cogestire le scelte sul decoro delle periferie. In cambio i comitati dovranno reperire i fondi necessari per la manutenzione degli spazi pubblici. Va da se che al decoro potrebbe contribuire una certa pulizia etnica e sociale.
Anche in periferia lo spazio pubblico ambisce a diventare vetrina, per affrontare le sfide di una città che si candida a snodo nevralgico in un reticolo di strade, commerci reali e virtuali dove il successo dipende dalla capacità di attrarre eventi, centri direzionali, spazi espositivi. La concorrenza è spietata e le pulizie vanno fatte in fretta.
Avviene a Torino, una città che, senza rottura di continuità, dopo decenni di governo di centro-sinistra, è oggi targata 5 stelle. La ridefinizione dello spazio urbano per una sua messa a valore che escluda la povertà è una scelta che oltrepassa i confini del capoluogo piemontese.
Smaltire le eccedenze
I decreti sicurezza di Minniti hanno inaugurato la campagna elettorale del PD contro Lega e 5 Stelle, ma sarebbe miope non cogliere che la partita elettorale è solo un tassello nel mosaico del governo.
Il disegno sotteso alle norme sulla sicurezza urbana, ha un chiaro valore strategico.
Isolare, allontanare, ghettizzare i poveri implica la presa d’atto che un numero crescente di esseri umani sono vuoti a perdere, non riciclabili, né riassorbibili.
Per chi non ha in tasca un passaporto della Repubblica Italiana ed è privo di permesso di soggiorno Minniti ha solo affinato le tecniche elaborate nei decenni dai suoi predecessori. Nuove galere amministrative, accordi per respingimenti ed espulsioni, riduzione secca degli scarni diritti dei richiedenti asilo. Minniti ha dato un tocco di classe, introducendo il lavoro non retribuito per i profughi.
Il governo, che taglia i fondi per la sanità, la scuola, il trasporto pubblico, offre ai sindaci e ai prefetti strumenti che non miglioreranno le liste di attesa negli ospedali, né aumenteranno le corse di tram e bus, ma potrebbero far crescere la sicurezza percepita dai ceti medi impoveriti, che si sono accorti che la rete sospesa sotto il trapezio delle loro vite è stata tagliata.
Non potendo fugare lo spettro della povertà viene loro offerta la possibilità di allontanare i più poveri da stazioni, aeroporti, case occupate, giardini pubblici.
Difficile sopravvivere per chi fa accattonaggio o piccoli commerci, se viene imposto il divieto di usare gli spazi urbani e di muoversi liberamente.
Diritto amministrativo del nemico
I poveri vanno puniti perché sono poveri.
I giovani dei quartieri popolari, i disoccupati, i mendicanti, i senzatetto, i migranti vanno allontanati, nascosti, privati delle loro risibili libertà e diritti.
Nonostante il codice penale sia infarcito di norme contro i poveri e gli oppositori sociali applicate con crescente meticolosità negli ultimi anni, quest’apparato repressivo non è considerato sufficiente per affrontare “la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori e di promuovere interventi volti al mantenimento del decoro urbano”.
Con i decreti legge del ministro dell’Interno Minniti si va oltre il diritto penale del nemico, per introdurre il diritto amministrativo del nemico.
La linea di contiguità tra i due ambiti è resa evidente dal moltiplicarsi di misure restrittive della libertà che, pur restando nell’ambito del diritto penale, già prefigurano le misure adottate dal governo Gentiloni.
Fogli di via sparsi a piene mani a persone considerate indesiderabili, socialmente pericolose, sono divenuti normali. Per giustificare un foglio di via non è necessario avere commesso un reato, basta il profilo offerto dalla polizia politica al Questore.
Misure come la sorveglianza speciale imposta ad un crescente numero di attivisti politici mostra la volontà di togliere di mezzo compagni attivi nelle lotte, che la polizia e la magistratura non riescono a chiudere in carcere. I sorvegliati non possono frequentare sedi politiche, posti occupati o incontrare chi ne fa parte, è loro vietato partecipare a cortei e presidi, spesso devono sottostare al coprifuoco notturno.
Le stesse misure cautelari imposte di recente dalla magistratura ad antirazzisti, antifascisti, anarchici, ambientalisti mirano ad allontanarli dalle lotte ben prima del processo e di un’eventuale condanna. Obblighi di dimora distanti da dove si vive, oppure divieti di dimora a casa propria, firme quotidiane in altre città sono parte della costellazione repressiva imposta agli attivisti politici.
Al di là del reato contestato, si viene colpiti perché colpevoli di lottare per una radicale trasformazione dei rapporti sociali.
I decreti sicurezza di Minniti, pur innestandosi nella tradizione della repressione per via amministrativa, inaugurata con i centri di detenzione per immigrati nel 1998, rappresentano un salto di paradigma.
Sinora abbiamo esaminato i nuovi poteri di allontanamento di sindaci e prefetti in due chiavi. La prima è relativa alla valorizzazione di periferie soggette a processi di gentrificazione. La seconda è lo spostamento, l’emarginazione e ghettizzazione di quelli che a nessuno interessa mettere al lavoro.
La terza è squisitamente repressiva. Insorgenze sociali simili a quelle che di tanto in tanto scuotono le Cité francesi o i sobborghi inglesi, avrebbero conseguenze devastanti in un paese come il nostro, dove le cesure fisiche sono meno nette. Applicare agli italiani e agli stranieri regolari l’isolamento imposto ai braccianti di Rosarno o agli immigrati ospitati negli hotspot o dispersi tra campagne e monti non è semplice.
Più facile individuare e colpire settori sociali specifici, insuscettibili di integrazione o assoggettamento, o gli attivisti politici e sociali, che si battono perché questa storia muti di senso. Le restrizioni della libertà di carattere amministrativo non offrono a chi le subisce nemmeno le esili tutele del sistema giudiziario.
Sono state accresciute notevolmente le prerogative del prefetto nel decidere l’impiego dell’antisommossa nello sgombero delle occupazioni di case o di spazi sociali.
Chi occupa, chi resiste ad uno sfratto subirà una violenza maggiore.
Vengono colpite duramente anche classiche forme di lotta come blocchi ferroviari e picchetti. Oltre alle consuete denunce per interruzione di pubblico servizio, si rischia il daspo di sei mesi dal luogo della lotta e una multa. Daspo e multa hanno effetto immediato.
Sindaci e prefetti hanno il potere di dare il daspo a chiunque, a loro insindacabile giudizio, stia turbando il “libero utilizzo degli spazi pubblici”. Sotto questo cappello può stare tutto, dal rave al volantinaggio.
Possono limitare enormemente la nostra libertà con la stessa facilità con cui ci danno una multa per divieto di sosta.
Il daspo è stato sperimentato allo Stadio ed ora approda nelle nostre strade. A corollario un’altra misura applicata tra gli spalti approda nelle manifestazioni. Si tratta della flagranza differita. Se nel giro di 48 ore da un corteo vivace un poliziotto decide che quella ritratta in una foto sono io, posso essere arrestata. In questo modo il poliziotto diventa testimone, giudice ed esecutore di una sentenza, che può essere contestata ed eventualmente ribaltata solo dopo giorni o settimane di villeggiatura nelle prigioni di Stato.
L’autore di questo piccolo capolavoro di repressione per via amministrativa, Marco Minniti, è cresciuto all’ombra dell’ex presidente della Repubblica Cossiga. Quarant’anni fa Cossiga sedeva sulla stessa poltrona di Minniti: inviava e carri armati contro i manifestanti, aveva dato alla polizia licenza di estrarre la pistola e uccidere. Dobbiamo a lui la teoria sull’impiego di spie e provocatori nei movimenti. Con Cossiga Minniti ha costituito nel 2009 la Fondazione ICSA (Intelligence Culture and Strategic Analysis), centro studi sui temi d’intelligence. Più volte sottosegretario agli Interni con delega ai Servizi Segreti, a gennaio Minniti è infine approdato alla poltrona di ministro. L’uomo giusto al posto giusto.
In tutta Europa soffia il vento del fascismo, della demagogia, della xenofobia. Il governo mette in campo un apparato repressivo contro le insorgenze su cui Orban o Le Pen troverebbero ben poco da eccepire.
Muri invisibili attraverseranno le nostre città, separando i sommersi dai salvati sotto la rassicurante, benevola etichetta del “decoro”.
Maria Matteo
(quest’articolo è uscito sul numero di maggio di Arivista)