Il fronte del lavoro pare essersi inabissato nell’immaginario di tanta parte dei movimenti di opposizione. La trasformazione sociale è processo che non incardina più la guerra di classe alla contrapposizione tra capitale e lavoro, tra dominanti e dominati.
Come se la lunga serie di sconfitte degli ultimi trent’anni avesse reso inessenziale questo terreno di lotta, come se la diversa configurazione materiale dello sfruttamento rendesse marginale lo spazio e il tempo del lavoro.
In realtà stato e padroni continuano a fare la guerra di classe con crescente durezza.
Se lo studio era stato una delle maggiori conquiste per i figli dei lavoratori degli anni Settanta, ora, con il trucco dell’alternanza tra scuola e lavoro, i ragazzi vengono avviati alla servitù salariata già negli anni della scuola. Imparare a lavorare gratuitamente è un addestramento al domani che li aspetta. Spesso studenti e famiglie sono complici di questa trappola perché sperano di acquisire punti per affrontare al meglio la giungla lavorativa.
La statalizzazione del movimento dei lavoratori, che nel dopoguerra aveva garantito, a prezzo di lotte molto dure, tutele e diritti, ma ne aveva smorzato la carica rivoluzionaria, sembra essere la ricetta vecchia per i tempi nuovi. Se la disoccupazione – al 10,9% quella generale, al 40% quella giovanile – è divenuta strutturale dopo la quarta rivoluzione industriale, se la precarietà è sempre più diffusa tra chi lavora, la ricetta del reddito garantito dallo Stato è insieme un’illusione e una trappola.
Non per caso il governo ha promosso un’elemosina ad una manciata di persone in povertà assoluta, a condizione che queste si pieghino a condizioni e controlli che ne certifichino la “buona volontà” di uscirne. Il reddito di inclusione stabilisce che la povertà è una colpa, che chi è povero se l’è meritato e per “riemergere” deve comportarsi secondo canoni stabiliti dallo Stato. La ricetta applicata da anni ai rom, sta per essere estesa anche ai poveri italiani.
L’elemosina di Stato, anche se avesse la forma giuridica del diritto e non quella cattolica dell’aiuto, è comunque parte del problema e non la sua soluzione.
La disoccupazione, la precarietà strutturale nei suoi diversi modi, non possono essere affrontate con lotte e trattative rinchiuse nel reticolo statale. Vengono stanziate risorse per gli ammortizzatori del conflitto sociale solo quando la radicalità del conflitto obbliga Stato e padroni a fare un passo indietro. Altrimenti il meglio cui si possa aspirare è un’elemosina offerta in cambio dell’obolo versato nell’urna elettorale.
Perché sprecare le forze grandi o piccole che si riescono a mettere in campo per ottenere quello che Stato e padroni sono disposti concedere in cambio della pace sociale? La pace sociale è un uroboro, un serpente che si morde la coda, perché è il punto di partenza per un nuovo attacco dei padroni.
Non solo.
Le linee di cesura tra oppressi ed oppressori sono molteplici ed è grazie ai movimenti antisessisti, ambientalisti, antirazzisti che se ne è evidenziata l’importanza, offrendo un orizzonte più ampio alla prefigurazione di una diversa organizzazione sociale e politica.
É peraltro merito di chi, nei movimenti, ha evitato la trappola della riduzione della complessità del reale ad un unico orizzonte interpretativo, aver colto la necessità di adottare un punto di vista intersezionale. In altre parole: i fili immaginari che rappresentano le linee di cesura, pur separati per necessità analitica, nei fatti si intrecciano e vanno fotografati nel loro attorcigliarsi, senza privilegiare una chiave esplicativa tra le altre.
L’approccio libertario a questi temi, costitutivamente segnato da una maggiore capacità di cogliere la complessità sociale nei suoi aspetti materiali e culturali, deve tuttavia affinare i propri strumenti analitici.
La sfida è grande, le difficoltà enormi. Prova ne è l’emergere di tentazioni sovraniste, autarchiche, iperstataliste, che aprono la via a formazioni di “sinistra” che approdano a lidi dall’agre sapore rossobruno. Lo stesso successo di una aggregazione costitutivamente ambigua, giustizialista e statalista, liberale e protezionista come il Movimento 5 stelle la dice lunga sulla natura reattiva ed intrinsecamente reazionaria, delle risposte agli effetti della globalizzazione capitalista.
Il rischio, evidente, è la crescita della destra sociale, che i temi della sovranità, dell’intervento statale in economia sa trattarli molto bene, facendo leva sulla paura, sulla chiusura identitaria, sul razzismo.
Il governo Gentiloni, che pure ha segnato un punto alla destra, con gli accordi con le milizie libiche e la cacciata delle Ong dal Mediterraneo, mantiene una politica economica liberale, che ha fatto della precarietà l’orizzonte “normale” di vita per la maggioranza di chi vive nel nostro paese.
É tempo che la paura cambi di campo. É tempo che siano padroni e governanti a dover temere quelle che un tempo, e non per sbaglio, venivano chiamate le classi pericolose. Pericolose per un’ordine del mondo basato sullo sfruttamento, sulla dominazione, sulla schiavitù salariata.
Il G7 lavoro che si svolge alla reggia di Venaria rappresenta una straordinaria occasione per i movimenti di opposizione sociale di smontare la retorica dello sviluppo, della “crescita” infinita, che caratterizza le potenze che ogni anno si incontrano per allineare le politiche sul lavoro, per promuovere le legislazioni che stanno schiacciando sotto un tallone di ferro i chi per vivere deve vendere le proprie capacità ed il proprio tempo.
I lavorator* francesi il 12 settembre hanno dato un segnale forte e chiaro. La prima legge che ha demolito diritti e tutele venne fimata dall’attuale presidente della Republique, Macron. Due anni fa la lunga primavera di lotta contro la Loi Travail dimostrò che “l’emergenza terrorismo”, le leggi speciali e la repressione non fermavano né confondevano chi sapeva che i propri nemici siedono sui banchi del governo e nei consigli di amministrazione di banche ed aziende.
Il G7 sarà anche un’occasione per rimettere al centro chi agisce le lotte, grandi e piccole, che provano a fare del male alla controparte, per obbligarla a fare un passo indietro, sul terreno del salario, della sicurezza, dell’orario lavorativo, della qualità dei servizi nelle scuole, negli ospedali, nei trasporti.
La decisione di fare un corteo in periferia, in Barriera di Milano, è la scommessa di riannodare i fili della guerra di classe, in un quartiere dove la lotta per la casa, il reddito, la servitù del lavoro è anche lotta contro la militarizzazione, le retate, le repressione. Sono passati cent’anni dall’agosto 1917. La Barriera era al centro dello sciopero generale e dell’insurrezione contro la guerra e la fame. Le barricate messe a difesa del quartiere sono incise nella memoria di chi oggi ha raccolto il testimone di quelle lotte.
Il corteo del 29 settembre attraverserà le strade del quartiere e si concluderà con un’assemblea in cui prenderanno parola i protagonisti delle lotte. Gli addetti alle pulizie nelle scuole, i lavoratori dei trasporti e della logistica, quelli delle fabbriche, i precari e i fattorini, gli immigrati sotto il ricatto della clandestinità.
Il corteo che, il giorno successivo, da un’altra periferia, quella delle case dormitorio, tra il carcere e lo stadio si dirigerà verso la Reggia blindatissima dove si svolgerà il vertice, è legato alla dimensione simbolica della rappresentazione pubblica dell’inimicizia verso una bella fetta dei signori del mondo. La scommessa è che anche questo corteo abbia una ampia partecipazione popolare, che dia un segnale forte e chiaro in vista delle sfide durissime dei prossimi mesi
Che i signori del mondo sappiano che ci sarà la pace sociale quando gerarchia, oppressione, sfruttamento saranno solo parole sui libri di storia.
(questo articolo è uscito sull’ultimo numero di Umanità Nova)