Il 4 novembre è la festa delle forze armate. Viene celebrata nel giorno della “vittoria” nella prima guerra mondiale, un immane massacro per spostare un confine.
Il 4 novembre è la festa degli assassini. La divisa e la ragion di stato trasformano chi uccide, occupa, bombarda, in eroe.
Cent’anni fa, a rischio della vita, disertarono a migliaia la guerra, consapevoli che le frontiere tra gli Stati sono colpi di matita sulle mappe. Interessano a chi governa, ma non hanno nessun significato per chi abita uno o l’altro versante di una montagna, l’una o l’altra riva di un fiume, dove nuotano gli stessi pesci, dove crescono le stesse piante, dove vivono uomini e donne che si riconoscono uguali di fronte ai padroni che si fanno ricchi sul loro lavoro.
Cent’anni dopo, quelle trincee impastate di sangue, sudore, fango e rabbia la retorica patriottica, il garrire di bandiere e le parate militari nascondono i massacri, i pescecani che si arricchivano, le “decimazioni”, gli stupri di massa. Solo studi recenti ci restituiscono la storia delle rivolte, delle “tregue spontanee”, dell’odio per gli ufficiali. La memoria popolare ne conserva traccia nelle canzoni, che sono passate di bocca in bocca e riecheggiano nelle labbra di chi oggi lotta contro eserciti, guerre, stati e frontiere.
In questi anni lungo i confini d’Italia si sta combattendo una guerra feroce contro la gente in viaggio, contro chi fugge conflitti dove le truppe italiane sono in prima fila.
Sono ben 36 le missioni di guerra in cui è impegnato lo Stato italiano, 34 all’estero in 23 paesi, due nel nostro paese.
Le principali sono in Afganistan, Iraq, Libano, Libia, Kosovo, Somalia, nel Mediterraneo. L’impegno più importante è l’operazione “Strade sicure”, che impiega 7.000 soldati.
Sin dalla seconda guerra mondiale muoiono nei conflitti armati più civili e sempre meno militari. I soldati sono professionisti super addestrati, strumenti costosi e preziosi da preservare, mentre le persone senza divisa diventano obiettivi bellici di primaria importanza in conflitti che giocano la carta del terrore, per piegare la resistenza delle popolazioni che serve sottomettere, per realizzare i propri obiettivi di dominio. L’Isis è stata quasi sconfitta in Siria. I militari della jihad sono diventati l’emblema del terrore e della crudeltà. La propaganda di guerra nasconde una dura verità: tutti usano gli stessi mezzi. Solo la narrazione è diversa. Torture, rapimenti extragiudiziali, detenzioni senza processo, sono normali ovunque. L’Isis ama di più lo spettacolo e lo usa per dimostrare la propria forza e attrarre a se nuovi adepti. Al di là del palcoscenico la macelleria di Abu Graib, di Guantanamo, della School of Americas è la medesima esibita a Raqqa, Ninive, Senjal.
La smaterializzazione della guerra agita dall’alto con strumenti sempre più raffinati, la rende simile ad un videogioco, dove si muore davvero, ma la morte diventa asettica, come i soldatini delle consolle dei ragazzi.
Al riparo delle loro basi, a dieci minuti di auto dalle loro case, i piloti dei droni, osservano in uno schermo le possibili vittime, le puntano e le colpiscono come in un videogioco. La guerra virtuale diventa reale, ma accresce la distante onnipotenza di chi dispensa morte da una base lontana migliaia di chilometri dal sangue, dalle feci, dagli arti straziati, dall’inenarrabile dolore di chi vede morire i propri figli, amici, genitori.
Questi giocattoli letali costano molto meno di un bombardiere. Un Predator armato costa 4 milioni di dollari contro i 137 di un F35.
L’Italia è in guerra da decenni ma la chiama pace.
È una guerra su più fronti, che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
La guerra diventa filantropia planetaria, le bombe mezzi di soccorso.
Gli stessi militari delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa, sono nel Mediterraneo e sulle frontiere fatte di nulla, che imprigionano uomini, donne e bambini.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. Le sostiene la stessa propaganda: le questioni sociali, coniugate in termini di ordine pubblico, sono il perno su cui fa leva la narrazione militarista.
Torino è uno dei principali centri dell’industria aerospaziale bellica.
Sono cinque le aziende piemontesi, leader nel settore: Alenia Aermacchi, Thales Alenia Space, Avio Aero, Selex Es, Microtecnica Actuation Systems / UTC. 280 SMEs.
L’industria di guerra è un buon business, che non va mai in crisi. L’industria bellica italiana fa affari con chiunque. I soldi non puzzano di sangue e il made in Italy va alla grande.
L’Europa ha pagato miliardi al governo turco, l’Italia foraggia i trafficanti libici perché blocchino le partenze. Li ha allontanati dalla vista e se ne è lavata le mani: nelle cerimonie ufficiali il ministro di turno spende retorica su chi muore in mare o in fondo a un tir. La verità cruda ma banale è che in Siria, in Iraq, in Afganistan, in Libia si combatte con armi che spesso sono costruite a due passi dalle nostre case.
A Torino e Caselle c’è l’Alenia, la sua “missione” è fare aerei militari. Nello stabilimento di Caselle Torinese hanno costruito gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri made in Europe, e gli AMX. Le ali degli F35, della statunitense Loockeed Martin, sono costruite ed assemblati dall’Alenia.
Un business milionario. Un business di morte.
Lo Stato italiano investe ogni ora due milioni e mezzo di euro in spese militari, di cui mezzo milione solo per comprare nuove bombe e missili, cacciabombardieri, navi da guerra e carri armati. Gli altri servono per le missioni militari all’estero, per il mantenimento del militari e delle strutture. 65 milioni di euro al giorno. Il governo nei prossimi anni ha deciso di spenderne ancora di più. Alla faccia di chi si ammala e muore perché non riesce ad accedere a esami specialistici e cure mediche.
Nel Documento programmatico pluriennale della Difesa – 2016-2018 – sono previsti: 13,36 miliardi di spese nel 2016 (carabinieri esclusi), l’1,3 per cento in più rispetto all’anno scorso. Cifra che sale a 17,7 miliardi (contro i 17,5 del 2015) se si considerano i finanziamenti del ministero dell’Economia e delle Finanze alle missioni militari (1,27 miliardi, contro gli 1,25 miliardi dell’anno precedente) e quelli del ministero per lo Sviluppo Economico ai programmi di riarmo (2,54 miliardi, nel 2015 erano 2,50).
Finanziamenti, quelli del Mise, che anche quest’anno garantiscono alla Difesa una continuità di budget per l’acquisto di nuovi armamenti per un totale di 4,6 miliardi di euro (contro i 4,7 del 2015). Le spese maggiori per quest’anno riguardano i cacciabombardieri Eurofighter (677 milioni), gli F-35 (630 milioni), la nuova portaerei Trieste e le nuove fregate Ppa (472 milioni), le fregate Fremm (389 milioni), gli elicotteri Nh-90 (289 milioni), il programma di digitalizzazione dell’Esercito Forza Nec (203 milioni), i nuovi carri Freccia (170 milioni), i nuovi elicotteri Ch-47f (155 milioni), i caccia M-346 (125 milioni), i sommergibili U-212 (113 milioni).
La vocazione “umanitaria” delle forze armate italiane ha fame di nuovi costosissimi giocattoli.
In tutto il paese ci sono aeroporti militari, poligoni, centri di controllo satellitare, postazioni di lancio dei droni.
Le prove generali dei conflitti di questi anni vengono fatte nelle basi sparse per l’Italia.
La rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni sono maturate esperienze che provano a saldare il rifiuto della guerra con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i no Muos che si sono battuti contro le antenne assassine a Niscemi, gli antimilitaristi sardi che lottano contro poligoni ed esercitazioni. Anche nelle strade delle nostre città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono ricette universali, c’è chi non accetta di vivere da schiavo, c’è chi si oppone alla militarizzazione delle periferie, ai rastrellamenti, alle deportazioni.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
Contro tutti gli eserciti, contro tutte le guerre!