Sabato 10 febbraio. Siamo a Lucento, zona popolare di Torino. Qui c’è il villaggio santa Caterina: i nomi delle vie ricordano quelli dei paesi e delle città da cui arrivavano istriani e dalmati, che presero la via dell’esilio dopo la seconda guerra mondiale. Quelli che arrivarono a Torino finirono alle Casermette di Borgo San Paolo, un campo profughi che ospitava persone fuggite anche da Grecia, Francia, Libia, Montenegro, Africa orientale italiana. Le guerre sospingono tanta gente lontana dal posto dove viveva. L’impero del Duce e del Re si dissolse, il confine orientale si spostò nuovamente verso ovest.
Questa vicenda ha radici lontane. Dopo la prima guerra mondiale, l’Italia si sedette da vincitrice al tavolo delle trattative. Il trattato di Rapallo, che perfezionò le condizioni stabilite durante la conferenza di Versailles, sancì l’annessione all’Italia di Trento, Trieste, Istria, e Dalmazia. Luoghi dove almeno un milione di persone parlava lingue diverse dall’italiano venne obbligata parlarlo in tutte le situazioni pubbliche e, soprattutto, a scuola. In oltre cinquantamila lasciarono Trieste dopo l’annessione: funzionari dell’impero austroungarico o semplici cittadini di lingua austriaca o slovena, per i quali non c’erano prospettive di vita nella Trieste “italiana”. Una città poliglotta e vivace stava smarrendo la propria peculiarità di luogo di incontro e intreccio di culture diverse.
Il fascismo accentuò la repressione nei confronti delle popolazioni di lingua slovena e croata, l’occupazione tedesca e italiana della Jugoslavia fu accompagnata da atrocità indelebili. Le foibe e l’esodo sono uno degli ultimi momenti di una guerra durissima. Nella seconda guerra mondiale in Jugoslavia morirono un milione di persone, altrettante persero la vita nell’Italia del Nord.
Nelle fucilazioni dei partigiani titoisti caddero molti fascisti, anche se i gerarchi più importanti fecero in tempo a trovare scampo a Trieste. Caddero anche molte persone le cui collusioni dirette con il fascismo erano molto più impalpabili. L’equiparazione tra fascismo e italianità, perseguita con forza dal regime mussoliniano, costerà molto cara a chi, in quanto italiano, venne considerato tout court fascista. Oggi gli storici concordano sul fatto che le cifre reali sugli infoibati sono molto lontane da quelle proposte dalla retorica nazionalista, ma per noi anche uno solo sarebbe troppo. Sloveno, italiano, croato che sia.
Più significativo fu invece l’esodo dall’Istria e dalle coste dalmate. Città come Pola e Zara persero oltre il 80% della popolazione. Accolti bene dalle popolazioni più vicine, vennero trattati con disprezzo ed odio altrove. Ad Ancona vennero presi a sputi e trattati da fascisti in fuga. Qui a Torino erano guardati con diffidenza. Per la gente comune, con involontaria ma feroce ironia, erano “gli slavi”. La radice del male, oggi come allora, è nel nazionalismo che divide, separa, spezza.
I profughi delle Casermette di via Veglia, una zona isolata, priva di trasporti pubblici, vivevano ammassati nelle camerate trasformate in tendopoli: una corda e un telo garantivano una precaria intimità.
Il villaggio Santa Caterina venne ultimato tra il 1956 e il 1959: undici blocchi di palazzine di edilizia popolare furono costruite per le famiglie di profughi dell’Istria e della Dalmazia. Allora quella zona di Torino era ancora campagna: strade, autobus, negozi, scuole sarebbero arrivati nei due decenni successivi. La storia del villaggio si fonde con quella del quartiere e della città.
Nel 2004 venne istituita la giornata del Ricordo dell’esilio istriano e dalmata e delle vittime delle Foibe. Poco dopo il comune di Torino fece apporre su una delle case del villaggio una lapide commemorativa.
La memoria della guerra fascista sul fronte orientale, l’invasione della Jugoglavia e della Grecia, la feroce occupazione militare, i campi di concentramento dove si moriva di fame e sevizie, gli stupri, le torture non sono mai entrati nella memoria collettiva.
Il mito degli “italiani brava gente”, assunto in modo trasversale a destra come a sinistra, fonda il nazionalismo italiano, un nazionalismo che si nutre di un’aura di innocenza e bonarietà “naturali”.
In Italia la memoria è la prima vittima del nazionalismo, che impone una sorta di ricordo di Stato, che diviene segno culturale condiviso. Una sorta di marchio di fabbrica. Si sacrificano le virtù eroiche ma si eleva l’antieroismo dei buoni a cifra di un’identità collettiva.
Nonostante le ricerche storiche abbiamo mostrato la ferocia della trama sottesa al mito, questo sopravvive e si riproduce negli anni.
Un mito falso e consolatorio, che apre la via al revisionismo fascista. La giornata del Ricordo viene cavalcata ogni anno dalla destra xenofoba e razzista.
La gestione delle giornate della “memoria” e del “ricordo”, assunte in modo bipartisan dalle varie forze politiche, ha contribuito ad alimentare questa favola rassicurante, impedendo una riflessione collettiva che individuasse nei nazionalismi la radice culturale del male.
Quest’anno sia Forza Nuova che Casa Pound si sono ritrovate due ore l’una dall’altra, al villaggio Santa Caterina.
Gli antifascisti torinesi si sono dati appuntamento nella zona del mercato di corso Cincinnato, all’angolo con via Valdellatorre. Uno striscione con la scritta “nazionalismo cancro dei popoli” era affisso al camion di testa.
Un imponente schieramento di polizia difendeva i fascisti. Il corteo ha tentato più volte di aggirare la polizia, senza tuttavia riuscirvi. In una viuzza laterale la testa del corteo è stata caricata ed un compagno, Fabrizio, è stato preso, buttato a terra, manganellato e portato in questura e, da lì, al carcere delle Vallette.
Il corteo ha fronteggiato a lungo la polizia prima di avviarsi all’Edera Squat.
La fiaccolata di Casa Pound si è snodata per corso Toscana e il villaggio, protetta dalla polizia.
I quotidiani del giorno successivo hanno tratteggiato un improbabile scenario di guerriglia.
Martedì il giudice ha convalidato l’arresto di Fabrizio, che è stato scarcerato con obbligo di firma.