Stazione di Porta Nuova a Torino, una sera come tante in un gennaio tiepido. L’aria è quella dei luoghi di transito, dove la gente passa e va. Vite sospese tra i propri luoghi d’elezione, minuti di un fluire che non si interrompe, anelli di congiunzione.
Per i profughi l’intervallo è la vita. Lunghe soste nel viaggio verso un futuro che non arriva. Il loro tempo è fatto di attese.
Siamo al binario 17. Da lì parte il treno per Bardonecchia, alta Valle Susa. Quando si aprono le porte dei vagoni, arriva la pattuglia. Due poliziotti e due militari con il mitra in braccio si piazzano all’imbocco della banchina. La gente va e viene. Arriva un ragazzo di origine africana: lo fermano, gli chiedono i documenti e lo fanno passare. Si avvicinano altri due africani, ma si allontanano subito. Quando il treno parte, gli uomini in divisa si dirigono verso di loro per controllarne i documenti. Poi, sino al prossimo treno per la Valle, si spostano verso gli ingressi.
É così ogni giorno da molti mesi. Uomini in divisa a caccia di ragazzi africani.
La stazione è una delle tante frontiere che tagliano in due le nostre città. Frontiere invisibili ed impalpabili per chi gode della cittadinanza, diventano barriere difficili da valicare per chi, a prima vista, potrebbe non avere in tasca le carte giuste.
Chi arriva Italia e vuole proseguire viene imbrigliato in gabbie fisiche e normative. I trattati europei impongono di fare richiesta d’asilo nel paese d’arrivo. A tanti, dopo anni di attesa, viene negata l’accoglienza e diventano clandestini. Le nuove leggi, emanate dal governo in primavera ma divenute operative in estate, rendono ancora più difficile far valere le proprie ragioni ed ottenere il pezzo di carta, che permette di restare in Italia.
Molti, forse i più, vorrebbero proseguire il viaggio, perché la loro meta è più a nord.
La frontiera con la Francia è aperta per la libera circolazione delle merci ma è chiusa per i migranti.
Le persone, mercanzia di nessun valore, restano impigliate nelle reti messe lungo il cammino.
La strada che porta nel cuore dell’Europa è disseminata di insidie. Il governo paga i trafficanti, invia truppe per fermare la gente in viaggio. Gli esecutori sono in Africa, i mandanti siedono in Parlamento.
Le frontiere uccidono
I muri della fortezza Europa uccidono uomini, donne e bambini che fuggono guerre, miseria, persecuzioni e dittature.
Quelli che partono lo sanno, ma ogni giorno, nel cuore dell’Africa, qualcuno si mette comunque in viaggio. Per arrivare servono soldi per pagare i trafficanti.
In Libia la guardia costiera e gli uomini delle milizie gestiscono prigioni per migranti. La Libia è un inferno per la gente in viaggio: sequestri, ricatti, torture, stupri per ottenere un riscatto dalle famiglie. Dai campi libici molti non escono vivi. Chi sopravvive alle violenze, chi riesce a farsi mandare altri soldi da casa, si imbarca sui gommoni.
Il governo Gentiloni si vanta di aver ridotto gli sbarchi negli ultimi mesi. Il prezzo pagato è stato altissimo. In soldi e in vite umane.
Nel febbraio del 2017 il ministro Minniti ha stretto un accordo con il governo della Tripolitania per i respingimenti in mare, offrendo denaro, pattugliatori e uomini in armi per l’addestramento.
In estate il governo ha obbligato buona parte delle ONG che soccorrevano la gente dei gommoni ad andarsene dal Mediterraneo, accusandole di collaborare con gli scafisti.
In agosto ha pagato le milizie libiche di Zawiya e Sabratha, che gestiscono il traffico dei migranti, affinché bloccassero le partenze.
A gennaio il parlamento ha ratificato la decisione governativa di potenziare la missione militare in Libia. In aride cifre: 400 uomini e poco meno di 35 milioni di euro.
L’ambizione del governo italiano è il blocco delle partenze in Africa. Per questa ragione Gentiloni ha messo in campo una nuova missione militare in Niger, che potrebbe porre le basi per la costruzione di campi di prigionia nel cuore del Sahel, lungo le rotte verso la Libia.
Ma in Africa, terra di conquista post-coloniale, lo scontro tra le potenze europee, gli Stati Uniti e la Cina per il controllo delle risorse è sempre più aspro. L’avventura italiana in Niger potrebbe non essere gradita al governo francese e subire una seconda battuta d’arresto in due anni, ma il governo di turno difficilmente mollerà la presa.
In questo mese sono ripresi gli sbarchi. Sono cambiate le rotte: si parte da Turchia e Tunisia. Il governo turco, impegnato militarmente nell’attacco al cantone di Afrin in Siria del Nord, aumenta la pressione sull’Europa per ottenerne appoggio politico ed economico. Mentre i Paesi Bassi ritiravano l’ambasciatore ad Ankara, Erdogan era ricevuto in Italia con tutti gli onori.
Da Ventimiglia a Bardonecchia. Le rotte dei senza carte
A Ventimiglia arrivano da anni. Il loro tempo è fatto di attesa. Attesa dell’occasione buona per passare. Tanti provano e riprovano. Qualcuno ci lascia la pelle: nelle gallerie ferroviarie o sull’autostrada, dove un cartello fisso avvisa gli automobilisti della presenza di pedoni. Ai caselli ci sono gendarmi ad ogni punto di accesso: chi ha la pelle scura viene quasi sempre fermato. Per gli altri basta un’occhiata fugace: la loro pelle chiara è il passpartout.
Nelle giornate e notti impastate del nulla dell’attesa molti bivaccano dove possono, spesso in luoghi freddi e pericolosi come il greto del torrente Roja, che fa paura quando le piogge lo gonfiano e scende ruggendo dai monti. Le tende sono sgomberate ciclicamente dalla polizia. Chi viene preso finisce su un pullman per il sud Italia o deportato nel paese di origine.
É un tragico gioco dell’oca: chi torna alla partenza non sempre riesce ad arrivare.
Era il 2009: alcuni cittadini eritrei diretti in Italia vennero respinti in Libia e rinchiusi in prigione, grazie agli accordi di Berlusconi con Gheddafi. Fecero ricorso alla corte europea per i diritti umani e lo vinsero: l’Italia venne condannata. Nel frattempo due di loro erano morti. Il mare li aveva inghiottiti durante un ulteriore tentativo di passare la frontiera.
Per migliaia di uomini, donne, bambini il tempo si ferma tra le acque del Mediterraneo. Una strage infinita. Pochi anni fa i grandi numeri di certi naufragi guadagnavano le prime pagine dei giornali. Oggi sono infilati nelle pagine interne, spesso restano sul web senza mai approdare alla carta inchiostrata. Troppo breve la durata della notizia, perché valga l’effimera luce di un quotidiano.
Chi ha affrontato il deserto, le torture, la prigionia è disposto a tutto pur di arrivare.
Molti sfidano le intemperie, pur di superare i dispositivi di controllo.
Da circa un anno chi va in Francia prende i sentieri sui valichi alpini. Lo scorso inverno Mamadou è stato trovato sul colle della Scala. É sopravvissuto ma gli sono stati amputati entrambi i piedi. In estate, due ragazzi, inseguiti dai gendarmi, sono precipitati, ferendosi gravemente.
Ogni giorno almeno una ventina di migranti provano a passare, rischiando la vita nella neve, spesso senza abiti e scarpe adatti, senza conoscere la montagna, le condizioni meteo, il pericolo di valanghe. Tanti vengono respinti più e più volte. I gendarmi che li pescano lungo la strada li caricano sulle camionette e li lasciano al di là del confine, anche in piena notte quando il freddo morde le carni.
Sul versante francese l’autista di un pullman diretto a fondovalle ha preso i soldi dei biglietti, poi ha chiuso le porte del bus e ha chiamato la polizia.
Gendarmi francesi controllano la stazione di Bardonecchia, per impedire ai migranti di prendere il treno diretto a Modane. In alta valle di Susa i sindaci hanno fatto chiudere le sale d’aspetto delle stazioni in pieno inverno. Da quando le immagini e le storie di questa frontiera sono arrivate sui media main stream, una saletta riscaldata viene aperta alle dieci di sera a Bardonecchia.
Da qualche mese molti hanno deciso di non stare a guardare.
A Briancon una casa occupata ospita chi arriva. A Torino e in Valle sono stati raccolti e distribuiti abiti pesanti, scarponi, sciarpe, qualcuno ha aperto la propria casa per le emergenze dell’ultimo minuto. Una vasta rete di solidarietà attiva è stata intessuta tra la città e la montagna. Una marcia da Claviere a Montgenevre ha mostrato nella pratica la volontà di vivere come se le frontiere non ci fossero, lottando perché non ci siano più.
Il confine è una linea sottile sulle mappe. Tra boschi e valichi, tra le acque del Mare di Mezzo, non ci sono frontiere: solo uomini in armi che le rendono vere.
Inceppare il meccanismo infernale che tiene sotto scacco i migranti è possibile. La solidarietà dal basso spezza l’indifferenza, rompe il silenzio. Chi elude i confini finisce nel mirino della magistratura: Cedric Herrou, contadino francese che ha aiutato duecento africani a passare la frontiera in Val Roja, lo scorso agosto è stato condannato a quattro mesi di carcere.
Una normale strage fascista
Viviamo tempi terribili. L’anestesia dei sentimenti, la loro declinazione secondo le logiche della paura e del ripiegamento identitario, generano normalissimi mostri.
Un fascista spara su gente inerme, colpevole di avere la pelle scura. La notizia della tentata strage di Macerata non è dilagata sui media come le stragi dell’Isis, dei terroristi che sparano nel mucchio per spaventare tutti. Anzi. Sui media c’è chi giustifica e chi applaude.
Scenografia perfetta, studiata a lucidamente a tavolino: prima gli spari, il terrore, poi il tricolore in spalla, il braccio teso, il monumento ai caduti. La paccottiglia nazionalista ed identitaria per una guerra che non è la “follia” di uno, ma il fascismo che torna. Ben oltre i gruppi che se ne dicono eredi ed appoggiano chi spara ai migranti. Il fascismo è già qui. Da lunghi anni. Decenni di guerre (post)coloniali, respingimenti in mare, leggi razziste, deportazioni, prigioni per migranti, esternalizzazione della violenza, militari in strada, confini blindati, criminalizzazione della solidarietà sono l’emblema di questi tempi feroci. Finite le ideologie, le politiche razziste le fanno i governi di centro destra e quelli di centro sinistra. Tanti, troppi, plaudono. Chi non si accontenta delle stragi per procura, dei morti nel deserto, dei torturati nei lager libici, vuole una più radicale pulizia etnica. Traini non è solo. E lo sa. Di fronte al terrorismo fascista si sono sprecati i distinguo, i “ma” i “però”.
I fascisti forniscono la cornice giusta per incanalare la paura, il desiderio di rivalsa verso immigrati e profughi. Ma il nostro oggi non è quello di un secolo fa.
I confini, le linee di demarcazione tra sommersi e salvati, ricalcano quelli coloniali, le patrie, i confini invalicabili, ma non mettono al sicuro nessuno. Chi ha le carte in regola, il passaporto europeo, la cittadinanza italiana, può andare dove vuole, ma non ha alcun porto sicuro dove approdare.
Lungo le strade del postumano i ricchi si stanno costruendo un lungo futuro. I pezzi di ricambio coltivati in provetta non sono più utopie, ma un tempo che è già oggi.
Per i poveri, di qualsiasi colore, c’è un orizzonte da robot umani, al servizio delle macchine intelligenti. Un braccialetto al polso ed il tempo scandito dai ritmi della merce. È la realtà nei magazzini di Jeff Bezos, quelli dove corpi in eccesso vengono spremuti finché reggono. Poi qualcun altro lo sostituisce.
Per gli scarti, di qualsiasi colore, non c’è posto.
Il fascismo storico fu una controrivoluzione preventiva attuata per bloccare le insorgenze sociali che avevano fatto tremare i padroni nel biennio rosso. Il fascismo disciplinò con la violenza operai e contadini del BelPaese. L’impero, ottenuto massacrando i civili con l’iprite e le bombe, creò un’illusione di grandezza per i proletari italiani, spinti verso le colonie.
Oggi la conquista dell’Africa la fanno eserciti di professionisti, seguiti da imprese con manodopera intercambiabile, che quando serve spostano il proprio core business ovunque trovino condizioni migliori. L’industria 4.0 è leggera, mobile, senza legami veri con un territorio. Non ci sono più certezze, sia pure minime, per nessuno.
Le piccole patrie, il tricolore, il monumento ai caduti danno un ombrello identitario ad un’umanità spaventata e rancorosa. Ma ovunque piovono pietre.
Serve oggi una rivoluzione preventiva che fermi il fascismo, che inceppi la macchina che trita la vite della gente in viaggio.
Non è facile e neppure probabile, tuttavia è impossibile non avvertirne l’urgenza.
Abbattere le frontiere simboliche e reali che si stanno moltiplicando nel cuore delle nostre città è un primo passo.
È il momento di decidere da che parte stare. Un giorno non potremo fingere di non aver visto, di non aver saputo. Chi tace, chi volta lo sguardo è complice. Nessuno lo farà al nostro posto. Tocca a ciascuno di noi.
Stazione di Porta Nuova, Torino. Binario 17. Un ragazzo africano ha in mano un biglietto per Bardonecchia: chiede informazioni ma pochi capiscono. Poi incrocia la persona giusta e un filo della sua vita si intreccia con gli altri.
Questo articolo è uscito sull’ultimo numero di A rivista