Dopo Afrin, il sultano punta a Mambij e Kobane
Il 18 marzo Afrin è stata occupata dalle truppe turche e dalle milizie islamiste. I media italiani le chiamano “Esercito Libero”, una sigla che raccoglie varie formazioni salafite: la più nota è Jabhat Al-Nusra, la branca siriana di Al Qaeda. Gli abitanti dopo 55 giorni sotto le bombe sono stati costretti ad abbandonare la città.
Gli invasori hanno tagliato l’acqua, l’elettricità, distrutto gli ospedali, per obbligare la popolazione curdofona ad andare in esilio.
Erdogan già annuncia il ritorno in Siria di profughi arabi e di curdi jihadisti per sostituire la popolazione messa in fuga con il terrore.
I profughi sopravvivono in condizioni durissime, grazie alla solidarietà della gente del cantone vicino dove si sono rifugiati.
Il tributo di sangue per la difesa di questa enclave dove si sperimentavano relazioni politiche e sociali anticapitaliste, femministe ed ecologiste è stato altissimo.
Afrin non è tuttavia ancora pacificata, perché continuano le azioni di guerriglia delle milizie YPG e YPJ e SDF.
Erdogan ha intenzione di attaccare Kobane, Mambij e tirare dritto sino al Kurdistan iracheno.
Russia, Iran e Turchia stanno trattando la spartizione: il futuro della Siria dipenderà anche dagli accordi che verranno stipulati, tra (ex) nemici.
Ma il quadro si chiarirà solo quando gli Stati Uniti scopriranno le loro carte.
Manterranno gli impegni presi con i curdi siriani, il cui contributo alla sconfitta dell’Isis è stato decisivo in molte battaglie, prima tra tutte quella di Raqqa, o lasceranno mano libera all’ingombrante alleato turco?
Nel frattempo il PKK, per evitare l’attacco turco su Senjal, l’area curdofona di religione Yezida, ha annunciato il ritiro delle proprie truppe e la riconsegna dell’area al governo iracheno.
In queste settimane si sono moltiplicate le iniziative di piazza e le azioni dirette in solidarietà con la popolazione del Rojava sotto attacco.
A Torino c’è stata una prima manifestazione l’11 marzo, quando il presidio convocato in piazza Castello si è trasformato in un corteo sino a Porta Susa, dove sono stati affissi bandiere e striscioni.
Il 17 marzo, è stato lanciato un nuovo presidio. Quel giorno tre missili avevano distrutto l’ultimo ospedale della città. L’artiglieria aveva colpito una colonna di profughi. La pulizia etnica era cominciata.
Il giorno prima era stata diffusa la notizia che l’UE avrebbe consegnato al Sultano di Ankara 3 miliardi, la seconda tranche pattuita con la Turchia perché impedisca a profughi e migranti di lasciare il paese.
L’Italia, in prima fila nella guerra alla gente in viaggio, a pochi giorni dall’inizio dell’operazione ramoscello d’ulivo aveva accolto Erdogan con tutti gli onori, tacendo dei massacri e della pulizia etnica, che si stava per consumare ad Afrin.
Dopo le visite ufficiali la parola passò ai manager delle industrie italiane che fanno lauti affari con la Turchia. In prima fila il colosso armiero Leonardo, poi ENI, Barilla, Unicredit, Ferrero e tante altre.
Nemmeno il blocco della SAIPEM dell’ENI, cui la Turchia impedisce le trivellazioni in mare previste da un accordo con Cipro, ha incrinato le buone relazioni tra Roma ed Ankara.
In queste settimane in ogni dove ci sono state manifestazioni di solidarietà con la resistenza della popolazione di Afrin e del Rojava all’attacco degli islamisti turchi e siriani.
A Torino ci sono stati tre cortei ed alcune azioni dirette: scritte, striscioni, un fuoco sotto all’AMX piazzato nella rotonda dietro all’Alenia.
Ad Afrin la gente è stata uccisa da armi prodotte in Italia, molte a Torino.
La prima iniziativa si è tenuta l’11 marzo, quando è stata diffusa la notizia che le truppe turche stavano completando l’accerchiamento, mentre i bombardieri bruciavano il centro abitato.
Era tempo di agire.
Il presidio convocato in piazza Castello si è trasformato in un corteo determinato e comunicativo.
La manifestazione si è conclusa a Porta Susa, dove sono stati affissi bandiere e striscioni.
Il 17 marzo l’appuntamento era in piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione di Porta Nuova. Il presidio si è trasformato in corteo. I rumori dei bombardamenti e le voci da Afrin sono risuonate per il centro cittadino. I media hanno osservato per due mesi la consegna del silenzio.
Il silenzio sui massacri, le bombe, i bambini morti.
In via Roma, nei pressi della sede del quotidiano Repubblica al suono dei bombardamenti molte donne si sono lasciare cadere, per dare voce ai corpi invisibili delle donne curde che resistono e muoiono.
Imponente lo schieramento di polizia: la questura ha blindato la stazione e i negozi del centro.
Il corteo, dopo numerose fermate e interventi si è concluso in piazza Castello.
Il giorno successivo i media hanno rotto il silenzio, dando ampio spazio alle dichiarazioni trionfali di Erdogan. Le immagini di fonte turca mostravano prigionieri pesti e i soldati della mezzaluna nell’atto di abbattere la statua del fabbro Kawa. La storia di Kawa è tra i miti fondanti dell’identità curda, perché narra della battaglia impari tra il fabbro e il tiranno assiro Dehak.
Una storia che viene celebrata ogni 21 marzo con l’accensione di fuochi per il capodanno curdo, il Newroz.
Una festa che quest’anno si è svolta nelle aree curdofone e tra la gente della grande diaspora curda con lo sguardo rivolto ad Afrin.
Gli anarchici turchi del DAF hanno partecipato alle manifestazioni e diffuso questo testo: “Pensi che la lotta di Kawa finirà? Pensi che il fuoco che ha acceso sarà spento? Centinaia di Dehaq, in migliaia di anni, hanno cercato di spegnere questo fuoco che è la lotta per la libertà e per la giustizia.
Pensi che Kawa sia solo una statua che puoi distruggere?
Nessun padrone, in molte geografie, ha avuto la capacità di distruggere le idee e la lotta di Kawa, con le loro invasioni o distruzioni.
Ora è il momento di fare più grande il fuoco di Kawa, è il momento di fare più grande il fuoco della libertà, ora è il momento del Newroz!”
Il 24 marzo un corteo ha attraversato il centro cittadino, partendo da piazza XVIII dicembre. Tanta gente, in prima fila le donne, che hanno fatto una catena solidale con fazzoletti e braccia allacciate. In via Pietro Micca la sede di Unicredit, banca che si era seduta a tavola con Erdogan, in occasione della sua visita di stato in Italia, è stata spruzzata di colore e ricoperta di scritte.
Dopo una lunga sosta in piazza Castello il corteo si è concluso alla RAI. La polizia in assetto antisommossa ha bloccato il corteo in via Rossini prima dell’ingresso in via Verdi. I manifestanti hanno fronteggiato a lungo i poliziotti prima di sciogliersi.
Forte è risuonato l’appello alla lotta, alla solidarietà, all’azione diretta.