Hannah Arendt, osservatrice al processo ad Eichmann, il “contabile dello sterminio”, che si atteggiava a grigio burocrate, scrisse di “banalità del male”. Probabilmente, al di là delle polemiche che suscitò all’epoca la sua rappresentazione di uno dei responsabili dello sterminio di milioni di persone, Arendt non poteva sospettare la fortuna che avrebbe avuto nei decenni successivi la sua amara constatazione su quanto conformista, insignificante, convenzionale, incolore fosse il male.
Oggi sappiamo che Eichmann era ben più che un mero “contabile”, bravo nel rendere più veloci, semplici, efficaci le modalità con le quali a ritmi da catena di montaggio, si raccoglievano, selezionavano, spogliavano, uccidevano e bruciavano i corpi di milioni di persone eliminate come polli allevati in batteria. Con la stessa, quieta, indifferenza. Resta il fatto che tanti furono gli esecutori materiali dello sterminio, come tanti vi collaborarono mettendo a frutto le proprie competenze tecniche, giuridiche, mediche, amministrative. Chi non collaborò attivamente sapeva ed approvava. La grandissima parte di queste persone non era né sadica né incline alla violenza.
Tanta cinematografia statunitense degli anni successivi ha confezionato un’immagine della dittatura nazista deformata dalle esigenze di propaganda del momento. La Germania Ovest era un’alleata preziosa durante la guerra fredda con l’Unione Sovietica. Il cinema costruì la narrazione, falsa ma potente, di una Germania schiacciata dal tallone dell’elite hitleriana e dalle SS, dove il popolo e l’esercito erano ignari ostaggi di una macchina feroce.
Sappiamo che non è così. Sappiamo che la “soluzione finale” era narrata nei cinegiornali, sappiamo che la deportazione e l’uccisione degli ebrei europei era approvata e plaudita, sappiamo che tutto venne codificato in un solido apparato legislativo.
Sappiamo che il Terzo Reich godeva dell’appoggio di un’ampia maggioranza della popolazione, perché era quel che era. Punto.
Altrimenti non vi sarebbe stata Auschwitz.
I 12 anni di nazismo venivano ridotti ad una parentesi di follia. Irripetibile.
Nel 1963 Arendt, nello specchio di Eichmann vide riflessa la normalità dello sterminio. Una banale procedura. Così banale che potrebbe ripetersi.
Non allo stesso modo, ma con la stessa ineluttabile semplicità. Semplice come la vita di ogni giorno, come la quotidianità che si nutre di ripetizioni, di piccoli rituali, di procedure consolidate.
Capita di chiedersi se non rischiamo di trovarci presto di fronte al bivio nel quale si separano complici e vittime, perché il tempo delle nuance, delle sfumature, delle gradazioni di grigio sta finendo.
Siamo abituati a pensare che il male sia estraneo alla vita quotidiana, estraneo alla normalità. Siamo convinti che il male non sia mai incolore. Persino quando lo è fingiamo che non lo sia, fingiamo che rappresenti l’eccezione, mai la regola.
La guerra, che pure è divenuta una costante di questi nostri anni, con truppe italiane che combattono su tanti fronti, viene raccontata come “male necessario”, o finanche come “male minore”. L’articolarsi della narrazione bellica intorno ad ossimori come la guerra umanitaria o edulcorazioni come l’operazione di polizia internazionale dimostra la volontà di nascondere la verità sui massacri delle truppe italiane.
Tutti sanno che la polizia picchia e tortura in modo ben più sistematico di quanto non rivelino vicende che solo la tenacia dei parenti delle vittime rende noti. Finché può lo Stato e le sue guardie armate negano l’evidenza, negano che Cucchi, Uva, Aldrovandi e tanti altri siano stati massacrati intenzionalmente. Negano perché temono lo sdegno che certi delitti potrebbero suscitare.
Negano e nascondono perché sono convinti di non avere il sostegno di una maggioranza significativa.
Sino ad oggi. Un giorno di questi potrebbe accadere che smettano di coprire con un tappeto il sangue per rivendicare la violenza sistematica di polizia, carabinieri, militari.
L’attuale ministro dell’interno, Matteo Salvini, ha approvato l’operato delle forze dell’ordine nel caso di Stefano Cucchi. Se il ministro di polizia sostiene che le botte a Cucchi sono giustificate, non sono ancora cambiate le leggi, ma potrebbero essersi modificati i rapporti di forza. Salvini ritiene di avere l’appoggio popolare: numerosi indizi inducono a ritenere che le sue convinzioni non siano prive di fondamento.
Questa lunga estate sembra scivolare via senza troppi contraccolpi, ma il sottile senso di inquietudine che attraversa le piazze dove, sin troppo timidamente, qualcuno prova a mettersi di mezzo, allude alla delicatezza del momento. La lunga storia della guerra ai migranti è come una pietra che rimbalzi a lungo quieta lungo un declivio, facendosi quasi frana, senza tuttavia mai correre all’impazzata. Pare che quest’estate di colpo il pendio sia divenuto più scosceso e la corsa stia accelerando. Non è questione di numeri ma di sostanza.
Le statistiche disegnano grafici inequivocabili: dallo scorso anno gli sbarchi sono nettamente diminuiti. Nell’estate del 2017 il governo Gentiloni inaugurò la stagione di lotta alle ONG impegnate in operazioni di serch and rescue nel Mediterraneo e strinse accordi con le milizie di Zawija e Sabratha, affinché bloccassero il traffico di migranti sotto il loro controllo.
Quest’anno il terreno era già stato sgomberato e reso disponibile a nuove operazioni di guerra non dichiarata. Il nuovo ministro ha solo completato l’opera, inserendo un tassello che né il suo predecessore Minniti, né, a suo tempo il suo camerata Maroni avevano osato portare sino in fondo.
Lo scontro esplicito con l’Europa è il perno su cui ha girato l’operato di Salvini e del ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli.
Impedire lo sbarco di centinaia di persone ripescate in mare da un’unità della Marina Militare Italiana va al di là della guerra alle ONG, criminalizzate come complici dei trafficanti. Negli ultimi mesi di governo già Minniti aveva chiuso i porti ad alcune ONG e, quando diede il via libera agli sbarchi, scattarono inchieste, blocchi delle imbarcazioni, accuse gravissime agli equipaggi.
Nel 2011, dopo un lunghissimo braccio di ferro con l’Europa, un altro ministro dell’Interno leghista, Roberto Maroni, si arrese e, in una sola notte, fece trasportare da Lampedusa alla Sicilia e, di lì, nei campi tenda settemila profughi della guerra per la Libia.
L’attuale governo è in sostanziale continuità con quelli precedenti di centro-sinistra e di centro-destra o siamo di fronte ad una frattura, ad una novità radicale, ad un salto di qualità?
Il dilemma, sebbene appaia autentico, nel dibattito politico estivo assume il sapore agre dell’interrogativo retorico. Rappresentare il governo Salvini-Di Maio nel segno della discontinuità radicale sui temi dell’immigrazione è operazione utile sia a destra che a sinistra del quadro istituzionale. Salvini, in continua campagna promozionale, vuole dimostrare di essere riuscito dove tutti gli altri hanno miseramente fallito, la disastrata opposizione Dem spera di rifarsi il trucco con l’antifascismo e l’antirazzismo.
Entrambi hanno ben poca lana da tessere, muovendosi sul terreno della propaganda.
Per i nazionalsocialisti non sarebbe stato facile promuovere lo sterminio degli ebrei se sin dai tempi della Seconda Internazionale i socialdemocratici non avessero soffiato sul fuoco dell’antisemitismo, equiparando l’ebreo al capitalista. Il che non implica negare la frattura ed l’imponente salto di qualità nazista.
La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, configurandosi come “diritto penale del nemico”, secondo la definizione coniata dal giurista tedesco Jacobs nel 1985, e articolandosi in termini che definirei di “diritto amministrativo del nemico”. Il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei diritti umani.
I governi di centro-sinistra, pur avendo inaugurato questa stagione nel lontano 1998 con la legge Turco-Napolitano che istituì la detenzione amministrativa nel nostro paese, provano a mantenere intatta la patina umanitaria. Una patina sottile. Tragicamente ridicola, ma simbolicamente importante. Per quanto abnormi siano la detenzione e la deportazione, per quanto sia criminale la blindatura delle frontiere, che uccidono chi prova ad attraversarle, per quanto evidenti siano le responsabilità di tutti i governi, le cerimonie del cordoglio mettono in scena la finzione che le stragi siano “disgrazie”, “incidenti” da imputare al mare o ai trafficanti.
Il nuovo governo ha annunciato un pacchetto sicurezza, che, pur annunciando un prolungamento della detenzione amministrativa non rappresenta una significativa rottura con il recente passato.
La novità è altrove. La sottile patina umanitaria, etichettata come “buonismo” è stata stracciata. La gente in viaggio viene etichettata come criminale, portatrice di malattie, pericolosa. Nemica.
Tutti. Sempre. Uomini, donne, bambini. Quest’estate non abbiamo assistito alla messa in scena del lutto istituzionale. Le barche affondate mentre le ONG assistevano impotenti, l’incriminazione di chi si è ribellato al ritorno in Libia sono state ragione di orgoglio.
Salvini è indagato per sequestro di persona, mancata assistenza perché non si è neppure preoccupato di adeguare le norme alle pratiche da lui imposte. Può così, pur essendo al potere, giocare il ruolo del perseguitato. Un gioco che i suoi alleati a cinque stelle hanno fatto con abilità e profitto per anni. Lungo questo declivio il ruzzolar di pietre può divenire frana. Il governo del cambiamento potrebbe chiedere ed ottenere più potere per assolvere il mandato di proteggere la comunità – gli italiani dimentichi del Po e dei riti celti – dal moloch della finanza, dall’immigrazione che mira a spezzare e cancellare l’identità, dalla libertà che nega il nucleo etico familiare.
Tra il 9 e il 12 dicembre del 2013 a Torino migliaia di persone si riversarono in strada imbracciando tricolori, decise a bloccare tutto perché deluse dal cambiamento che non arrivava, spaventate per il futuro che non c’era più. Bloccarono le strade e abbracciarono i poliziotti. Sui loro volantini si auspicava un governo militare, una dittatura. Finì presto. Tutti, delusi tornarono a casa, i media affondarono nel ridicolo quell’avventura e nessuno ci pensò più.
Oggi quella gente ha trovato la propria rappresentanza, un governo che ha promesso di realizzarne il programma.
Mentre scrivo le agenzie hanno appena battuto la notizia di un profugo sedicenne aggredito e ferito a Raffadali. Chi lo ha colpito gli ha gridato “vattene a casa tua”. È l’ultima di tante vicende tutte uguali.
Provate ad immaginare. Un uomo dal balcone vede una donna rom con una neonata in braccio, entra in casa, prende il fucile a pallini e spara alla bambina.
Un altro tizio vede un lavoratore sull’impalcatura. Prende il fucile e lo ferisce. L’operaio è di origine africana. Il ministro dell’Interno si mostra comprensivo con i fucilieri della ringhiera.
Impossibile? È successo quest’estate nel Belpaese. Ci sono case dove il rancore cova da tanto tempo, distillandosi goccia a goccia, corrodendo ogni senso di legame umano. Il seme dell’odio sta producendo i suoi frutti avvelenati.
Nessuno dica che non sapeva, nessuno dica che non aveva capito.
Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista