Roma 23 marzo. In marcia per fermare il cambiamento climatico e le grandi opere
Il cambiamento climatico e le conseguenze devastanti che ne derivano sono oggi saperi condivisi. Un tempo se ne occupavano solo gli esperti e gli attivisti ambientali, oggi investono in modo diretto le vite di tutti.
Le conseguenze del cambiamento climatico e della mancata tutela del territorio fanno morti e feriti a ogni temporale, ad ogni mareggiata, ad ogni incendio. Cementificazione, deforestazione, inquinamento dell’aria e dell’acqua producono devastazioni su scala globale.
Le chiamano “catastrofi naturali”, ma la loro origine è umana, sin troppo umana, ma non colpiscono tutti allo stesso modo. Un capitalismo cieco e sordo ci conduce diritto sino alla catastrofe. Chi governa e chi lucra sulle vite altrui ha uno sguardo ancorato al presente, con una progettualità che si limita ad una proiezione elettorale o ad un’indagine stagionale di marketing. Le questioni ambientali sono affrontate con interesse solo se possono essere fonte di business. La Green Economy è un lusso messo a disposizione di chi può e vuole pagare per alimenti più sani, acqua pulita, oasi privilegiate.
Il prezzo del cambiamento climatico e dell’abbandono dei territori viene pagato soprattutto dai più poveri.
I profughi climatici, quelli che fuggono da intere aree del pianeta, dove l’avanzare della desertificazione chiude ogni possibilità di sopravvivenza, sono in costante aumento. Non importa quanti muri verranno eretti, quanti militari armati saranno messi a guardia dei confini, quante vite verranno inghiottite dai deserti, dai mari, dalle montagne. Ci sarà sempre qualcuno che si metterà in viaggio. Quando la casa brucia si tenta il tutto per tutto. Oggi sta bruciando la casa di tutti, sta entrando in ebollizione il pianeta.
Un pianeta dove miliardi di esseri umani vivono nelle discariche, sulle discariche, con le discariche. La montagna di rifiuti è l’emblema del nostro tempo, il monumento ad un’idea di progresso che ha ingoiato milioni di vite.
Nel 2015 a Parigi tutti i “capi di governo” si fecero un selfie alla conferenza sul clima: serviva una spruzzata di verde sui loro curricola pubblici, ma poi, dopo tante chiacchiere, tutto restò come prima: la COP 21 fu un fallimento.
L’emergere di istanze sovraniste e populiste a livello planetario ha innescato, anche su questo terreno, una chiusura identitaria, che rende impensabili persino misure palliative.
Il presidente degli Stati Uniti, il paese che maggiormente ha contribuito e far franare la COP 21, ha costruito la propria immagine sul rigetto della dimensione universalista tipica della governance mondiale, facendosi paladino degli americani “rovinati dalla globalizzazione”, la gente della Rust Belt che sogna la vecchia Detroit come i melanesiani sognavano i loro Cargo della salvezza pieni di divinità.
Poco importa che lo stesso Trump sia un Paperone come tanti, una via di mezzo tra Donald Duck e Silvio Berlusconi. Quello che importa è l’immaginario che rappresenta. Un immaginario che relega le questioni climatiche tra i passatempi dei ricchi sinistri, indifferenti alle sorti dei bianchi impoveriti e spaventati degli Stati Uniti.
Una storia, che nella sua diversa declinazione peninsulare, conosciamo sin troppo bene.
La persistenza del mito del progresso e della velocità, come motore dello sviluppo, del benessere e del saldo ancoraggio al treno del primo mondo, ci narra di una classe politica ed imprenditoriale che prova a vendere l’impossibile. L’impossibile ancoraggio tra i luoghi di produzione della ricchezza e la sua distribuzione territoriale. Impossibile perché i tempi delle fabbriche pesanti, che ridisegnavano intorno a se il territorio sono tramontati e non torneranno. Va da se che non è certo il caso di rimpiangerli.
I miti del Novecento sono tuttavia la leva su cui spinge una media borghesia che teme per il proprio futuro come classe e prova ad ancorarsi all’illusione del progresso che consegna doni e sicurezza all’imprenditoria operosa e ai suoi intellettuali, professionisti, professori, giornalisti.
Il loro partito di riferimento è il PD, il cui nuovo segretario ha inaugurato il proprio mandato a Torino, in nome del Tav e del progresso.
Nel nostro paese dove la precarietà del lavoro e della vita danno fiato al vento populista, il mito del progresso si àncora di volta in volta al treno che buca le Alpi, alla pipeline che porta il gas, alle trivelle che sognano il petrolio, agli inceneritori, sino alle fabbriche di morte come l’acciaieria di Taranto. Le grandi opere inutili e devastanti sono il feticcio usato per promettere lavoro, prosperità, futuro. In passato il progresso veicolava il sogno folle che produrre di più, far girare le merci, fosse il motore del benessere. Oggi il mito del progresso è usato per arginare la paura, di chi, per effetto del capitalismo “leggero”, mobile, agile del nuovo secolo, rischia di essere relegato ai margini, di finire in una discarica sociale, la cui unica eloquenza è quella di muri, manganelli e polizia.
Molti sono già sul margine del foglio: precari a vita, partite IVA, i laureati nati in periferia senza prospettive ma pieni di risentimento per le promesse mancate, per la mobilità sociale che non c’è, sono il cuore dell’elettorato leghista e pentastellato.
La trama è sottile e mostra l’ordito che la sottende. In questi anni si sono moltiplicati i movimenti di lotta contro un’idea di progresso che sta mettendo a repentaglio la vita degli umani, degli altri animali, delle piante.
Un’idea di progresso contro cui si battono i movimenti contro il cambiamento climatico e contro le grandi opere, gli stessi che in mesi di incontri da Venaus a Roma a Napoli, hanno costruito un appuntamento nazionale a Roma, in cui confluiranno i movimenti, i gruppi e i singoli che lottano per difendere i territori dove vivono e l’intero pianeta, da una catastrofe che governi e padroni non provano neppure a rallentare.
Sono movimenti che partono da questioni locali ma hanno respiro globale, perché sono consapevoli che la posta in gioco è molto alta.
Il clima è solo uno dei tasselli di uno sguardo ambientalista che attraversa il pianeta. Non basteranno certo le sonde spedite su Marte ad alimentare l’illusione che vi sia una nuova frontiera da raggiungere e valicare, un nuovo orizzonte per la colonizzazione degli umani.
Il cambiamento climatico prodotto dall’utilizzo indiscriminato di risorse deperibili e non rinnovabili, la folle corsa al profitto non ha un orizzonte, ma resta incardinata nell’eternità di un presente, che non ha neppure la esasperata nobiltà del cupio dissolvi, della grande abbuffata che precede la fine. Non c’è fine e non c’è limite. La logica quantitativa, del qui ed ora, è l’unico perno su cui tutto gira.
Negli ultimi decenni lo sguardo ambientalista è divenuto uno cardini più robusti su cui si articola una critica radicale al capitalismo, la cui natura distruttiva porta alla catastrofe.
I movimenti ambientalisti per la loro stessa natura riescono a coniugare radicalità degli obiettivi e radicamento sociale. In questi anni hanno contribuito potentemente a creare comunità di lotta, che hanno riteritorializzato il conflitto sociale, con uno sguardo ampio, intersezionale, estraneo a logiche localiste, separate dalla critica più complessiva alle relazioni sociali nelle quali simo tutti forzati a vivere.
Le lotte contro il Tav, il Tap, il Muos, le trivelle, sono anche lotte contro la logica feroce del capitalismo, dello sfruttamento delle risorse e degli esseri umani. Uomini e donne che hanno assaporato il piacere dell’azione diretta, della politica come luogo di confronto e scelta fuori da ambiti gerarchici, radicata tra le persone. Un’aria di libertà. Di solidarietà con gli immigrati, con gli oppressi, con le fabbriche in lotta, con gli sfrattati, gli antifascisti.
Su questa ricchezza di lotte, relazioni, spazi di libertà e autogestione il Movimento 5Stelle ha fatto un grosso bottino elettorale, assumendosi l’impegno della messa in sicurezza del territorio, dell’impiego di risorse per trasporti di prossimità, energia rinnovabile, scuole, sanità. Si sono schierati contro gli inceneritori, per il blocco del Tap, del Tav, per la chiusura dell’Ilva…
Un lungo elenco di promesse non mantenute. Il ministro dei trasporti, il pentastellato Toninelli, ha chiuso i porti a profughi e migranti ma non ha bloccato né la linea ad alta velocità tra Torino e Lyon, né quella tra Genova e Tortona.
Con il movimento No Tav Toninelli e soci stanno giocando al gatto con il topo: non hanno bloccato l’opera, baloccandosi sulle parole per prendere tempo ed arrivare alla prossima tornata elettorale senza perdere ulteriori consensi, contando sul fatto che settori del movimento No Tav, a Torino come in valle, hanno un rapporto molto stretto con l’amministrazione a 5Stelle del capoluogo subalpino, la cui ambiguità sul Tav è seconda solo alla violenza con cui fanno guerra ai poveri, agli anarchici, agli immigrati.
Stato e capitale, ciascuno nel proprio ambito, mirano al controllo globale, pervasivo, totalizzante delle nostre vite, messe al lavoro anche nel tempo dell’ozio e della libertà dalla schiavitù salariata. Stato e capitale sfruttano le risorse del pianeta e mercificano persino l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo.
In questi anni gli anarchici sono sempre stati in prima fila nei movimenti di lotta, tra assemblee, presidi e barricate, nella consapevolezza che la partita che si sta giocando contro il mito del progresso, il cambiamento climatico e sull’opposizione alle lobby del cemento e del tondino, è cruciale in uno scontro sociale senza esclusione di colpi.
Solo l’azione diretta, il rifiuto della delega e l’autogestione dei territori possono inceppare una macchina che macina le vite di tanti ed il futuro di tutti.
Il 23 marzo al corteo che si svolgerà a Roma ci sarà uno spezzone anarchico. Partecipiamo numerosi!
Maria Matteo (quest’articolo è uscito sull’ultimo numero del settimanale anarchico Umanità Nova)