Le statistiche finanziate dal ministero dell’Interno danno in costante aumento la fiducia nei confronti della polizia, e in generale, di tutte le istituzioni pubbliche e private che gestiscono l’ordine pubblico per conto del governo o delle corporation.
Secondo l’Eurispes nel 2018 il 71% della popolazione avrebbe una buona opinione del lavoro della polizia, buona opinione che invece non si estende alle istituzioni politiche, in calo netto in diversi sondaggi, che evidenziano come la maggior parte delle persone ritengano immutabile la situazione sociale in cui sono immersi e ne attribuiscano la responsabilità al governo di turno.
Solo un italiano su 5 ha fiducia nel governo, sempre secondo i dati più recenti forniti dall’Eurispes, che non trovate sul sito del ministero dell’Interno ma hanno ampia eco sui siti legati a militari e polizia.
In altri termini ci sarebbe fiducia nel braccio armato dello Stato ma non nelle istituzioni politiche e, tanto meno in quelle giudiziarie, che ne determinano le regole di ingaggio, l’impiego sui vari territori, il finanziamento, la narrazione.
Lo sa bene l’attuale ministro dell’Interno che in ogni occasione possibile indossa la divisa della Polizia di Stato, contando su un processo identificativo che si innesti su un immaginario consolidato.
Facciamo un passo indietro
Nel dicembre del 2013 per tre giorni Torino venne attraversata da blocchi, cortei spontanei e serrate dei negozianti: volantini tricolori inneggiavano ad una presa del potere dei militari come passaggio ad un governo civile che ne interpretasse le istanze. Gli applausi ai poliziotti, baciati e abbracciati durante cortei selvaggi e blocchi stradali erano il segno di una volontà di rottura “rivoluzionaria”, in cui i vari corpi armati dello Stato si mettessero a disposizione dei cittadini insorti.
Durò poco, la repressione fu minima, la tolleranza notevole. Il blocco sociale che a Torino si rappresentò con forza non ebbe equivalenti nel resto della penisola, dove la “rivoluzione” forcona venne cavalcata solo dall’estrema destra classica, senza assumere il carattere vagamente insurrezionale della tre giorni subalpina.
In Barriera di Milano, il quartiere di Torino dove sono nata e dove ho trascorso buona parte della mia vita, il cuore della rivolta erano i lavoratori autonomi dei mercati, le partite IVA, i tassisti, i giovani italiani disoccupati, i piccoli negozianti schiacciati dalla grande distribuzione. Nei giorni che precedettero la breve avventura Forcona nei bar di Barriera si respirava un’aria strana, a metà tra l’esaltazione e il timore, in bilico tra la voglia di fare il “salto” e l’ansia per i propri affari. Nessuno aveva paura della polizia, delle possibili denunce: erano convinti di essere nel giusto e che i giusti non potessero che stare dalla loro parte. L’illegalità diffusa cui si dedicarono nei tre giorni successivi era giustificata dal diritto/dovere all’insurrezione. Segno che la legittimità delle istituzioni politiche è sempre, anche in questo caso, soggetta al consenso popolare.
Le ragioni sociali di quell’anomalo dicembre vennero evidenziate dalla maggior parte di chi studiò o commentò la vicenda, ma c’era una radice politica che i più preferirono ignorare. Sei mesi prima il movimento 5Stelle aveva sfondato le porte del parlamento con un’armata Brancaleone, nella quale si identificavano tanti di coloro che a dicembre volevano fare la “rivoluzione”. Erano quelli che promettevano di “aprire il parlamento come una scatoletta di tonno”. Uno dei motivi guida dei Forconi era la consapevolezza di aver votato per cambiare mentre tutto restava come prima.
Tutto finì in nulla e tutti tornarono a casa con la coda tra le gambe. La rivoluzione non è un pranzo di gala e non si fa in tre giorni.
Il nemico interno
Più di cinque anni dopo quell’aggregato sociale ha trovato rappresentanza nell’ibrido giallo-verde al governo.
La militarizzazione sempre più schiacciante dello spazio sociale ne è la caratteristica distintiva. Se la polizia è l’istituzione che attira i maggiori consensi, metterla in campo è un buono spot pubblicitario.
Gli spot funzionano finché la merce vera è l’immaginario che generano: quando le questioni sociali restano sullo sfondo, il meccanismo rischia di rompersi.
Se nel mirino finiscono gli immigrati, i consensi verso il governo aumentano. L’indignazione per i porti chiusi, i morti nel Mediterraneo e sulle rotte alpine è forte tra le classi medie colte, ma non tocca le periferie, dove gli italiani impoveriti vivono a fianco degli immigrati poveri e vorrebbero vederli sparire, nell’illusione che eliminato il “nemico interno”, tornerà l’età dell’oro con welfare, pensioni, sanità, scuole, trasporti di qualità.
Il governo, consapevole della necessità di offrire una risposta alle tensioni sociali che attraversano il paese, ha fatto leva su due proposte che hanno garantito il successo elettorale del Movimento 5Stelle e della Lega alle scorse elezioni politiche: quota 100 e reddito di cittadinanza. Entrambi i provvedimenti rischiano di portare ad un flop, perché il trucco c’è e si vede.
La legge Fornero non è stata abolita. Chi rientra nella quota 100 prenderà una pensione molto più bassa di chi ci andrà a 67 anni, perché il sistema di calcolo della pensione resterà quello fissato dalla legge del governo targato PD. Il reddito di cittadinanza è un’elemosina, elargita a chi la “merita”, accettando di lavorare gratis, di fare qualsiasi lavoro ovunque. Un meccanismo che ha lo scopo di disciplinare gruppi sociali pericolosi. Non si riconosce un diritto ma si definisce una condizione di inferiorità morale da cui i soggetti beneficati devono dimostrare di voler uscire. L’emblema di questa misura è la tessera a punti che i titolari del reddito devono usare dove e come decide il governo. Chi ha la sfortuna di essere nato altrove non avrà nemmeno l’elemosina destinata agli altri.
Se, come prevedibile, le misure sociali del governo non daranno risposte al blocco sociale che lo sostiene, la parola va alla retorica del nemico interno ed alla polizia. Una china scivolosa anche per il ministro dell’Interno, che all’indomani dello sgombero dell’Asilo di Torino, dopo 24 anni di occupazione, ha dichiarato che “dopo aver bloccato gli sbarchi dei migranti, è pronto all’affondo decisivo contro i “delinquenti” dei centri sociali”. Vecchi “nemici” evocati per mantenere il focus sull’ordine pubblico, sulla militarizzazione delle città, sulla stretta disciplinare.
Le periferie delle nostre città sono sempre più polveriere sociali pronte ad esplodere. In alcuni casi sono i fascisti a dare le carte di un gioco truccato, animando le proteste contro rom, profughi, immigrati, altrove la partita è più complessa e difficile da vincere.
Torniamo a Torino.
Lo sgombero dell’Asilo, gli arresti per sovversione, sono stati gestiti occupando militarmente un settore importante della periferia Nord e moltiplicando la pressione disciplinare sulla città.
Chi conosce e vive questa zona assapora da anni il sapore agre del controllo militare cui è sottoposto ogni giorno. Una quotidianità scandita da posti di blocco, retate di stranieri senza documenti, senzatetto, poveri che vivono lavando vetri o smerciando qualcosa.
Tanti di quelli che vivono tra Barriera di Milano e Aurora conoscono gli anarchici, che da decenni sono radicati nel quartiere. Diversi gruppi anarchici hanno o hanno avuto sede qui. Tante lotte, iniziative culturali, di solidarietà e di mutuo appoggio si sono sviluppate tra la Stura e la Dora.
Negli ultimi tempi lo scontro sociale è più duro.
Nei lunghi anni di governo del centro sinistra Torino si è trasformata radicalmente. La metropoli della Fiat, pensata e costruita come città fabbrica, ha lasciato il posto alla città immaginata tra il Politecnico, la stessa Fiat, le Banche e il partito Democratico. Città di servizi, turismo e grandi eventi. Gli antichi borghi operai, luogo di crescente marginalità sociale, sono costantemente sospesi tra riqualificazioni escludenti e il parco giochi di carabinieri, militari e poliziotti.
La giunta a 5Stelle si è velocemente inserita nel solco dei governi precedenti.
L’area di Porta Palazzo è attraversata da un processo di gentrificazione, che ha reso necessaria la normalizzazione violenta del quartiere. Un processo che nel quadrilatero romano venne gestito con infinita lentezza, favorendone l’assorbimento in maniera quasi indolore, ha subito una secca accelerazione.
Segno dei tempi.
Siamo in una periferia tradizionalmente eccentrica, in tutta la densità semantica del termine. Quartiere di poveri e di immigrati vicinissimo al salotto buono della città, luogo dove le pratiche e gli immaginari utopici si sono intrecciati lungo l’arco dell’ultimo secolo.
Qui il questore Messina, che pure si era guadagnato simpatie con le retate dei pusher, degli immigrati, lo sgombero lento dell’ex MOI e della baraccopoli di via Germagnano, commette un errore. Trasforma un’area della città in un fortino assediato: intere strade chiuse, check point per entrare nella strada dove si vive, controlli a tappeto di chiunque passi.
Questa volta non ci sono applausi. Anzi. Si indignano i commercianti che non riescono più a lavorare, si preoccupano i settori più progressisti dell’Ateneo Torinese, che arrivano ad indire un’assemblea pubblica sulla città sotto assedio.
Un vero boomerang. Il questore Messina, nonostante riesca a gestire con una certa abilità i cortei anarchici che attraversano la città il 9 febbraio e il 30 marzo, perde il posto. Viene comunque sostituito da De Matteis, che pare altrettanto malintenzionato,
Il governo della città e quello nazionale sono consapevoli che la povertà crescente, la precarietà della vita e del lavoro, la pressione disciplinare che permea di se ogni ambito sociale potrebbero innescare una insorgenza sociale diffusa. A Torino come in ogni dove d’Italia.
Rivolte urbane e militarizzazione del territorio
Negli ultimi 30 anni periodiche rivolte urbane hanno scosso città e metropoli del primo mondo. Spesso la scintilla è stata la stessa: la brutalità della polizia nei confronti di persone razzializzate, povere, escluse, ghettizzate.
Le statistiche che sostengono che il 71% della popolazione italiana ha fiducia più o meno alta nella polizia ci dicono anche che il 29% non ne ha affatto.
Si tratta in primis dei settori, che per collocazione sociale o posizionamento politico sono costitutivamente nel mirino delle forze dell’ordine.
Le istituzioni statali avocano a se il monopolio legittimo della violenza e ne delegano alcune funzioni solo ai privati non ostili agli interessi del blocco di potere dominante. L’utilizzo della violenza è quindi una prerogativa dello Stato, che può dispiegarsi a pieno solo contro chi viene considerato nemico da distruggere. La guerra, interna o esterna, è l’ambito dove l’esercizio della forza attraverso pratiche altrimenti criminali è consentito e plaudito. Quando tattiche belliche vengono attuate in ambiti che per i più non sono di guerra, il consenso si riduce. La guerra interna ha le sue regole e solo in contesti in cui la polarizzazione sociale è territorialmente marcata può dispiegarsi liberamente, altrimenti si creano aporie in cui possono aprirsi spazi inediti per teorie e pratiche più radicali. Nel quartiere Aurora a Torino, studenti, giovani creativi e altre soggettività che, per collocazione sociale stanno contribuendo alla gentrificazione, venendoci ad abitare e facendo lievitare gli affitti, hanno considerato intollerabile la militarizzazione del quartiere. La gestione dello sgombero di un posto occupato da anarchici, la contestuale minaccia di cancellazione della zona normalizzata ma povera del mercato degli stracci del Balon, ha innescato una reazione che è andata oltre i gruppi politici e sociali effettivamente coinvolti. L’occupazione militare del quartiere, che mirava a rendere tangibile la pretesa criminalità degli occupanti dell’Asilo, è riuscita, per una volta, a mostrare la criminalità del potere. E tutto questo negli stessi luoghi dove la violenza poliziesca si è dispiegata selettivamente per anni contro poveri e stranieri, e l’iniziativa politica era agita solo dai due gruppi anarchici della zona, l’Asilo e la Federazione Anarchica. La militarizzazione e i controlli indiscriminati hanno fatto saltare gli equilibri.
La partita nelle città italiane, dove sono poche le aree ghetto, fisicamente e socialmente separate, è più complessa che altrove.
Il governo ne è consapevole e punta sul coinvolgimento diretto dei cittadini nella gestione dell’ordine pubblico. La Lega ha pronto un progetto di legge sulla “sicurezza partecipata”, che mira a costruire relazioni di complicità territoriale tra cittadini e forze dell’ordine. Oltre agli occhi e alle orecchie elettroniche, ai controlli biometrici, ai gps sulle auto, anche lo spionaggio di quartiere.
L’auspicio è che, tramite pratiche partecipative di segno opposto, si riescano ad inceppare anche questi, più sottilmente perversi, meccanismi di controllo. Ne riparleremo.
Maria Matteo
(Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)