Provate a pensare. Un pronto soccorso a gennaio di quest’anno, quando il Covid 19 ancora aveva un altro nome ed era una questione cinese, lontana.
Un giorno qualunque, a Torino, ma potrebbe essere ovunque. Un display luminoso vi annuncia che ci sono 332 persone in attesa, divisi in codici rossi, gialli, verdi e bianchi. Il pronto soccorso sembra un ospedale da campo in tempo di guerra: barelle ovunque, gente in attesa per ore, giorni. Nel tempo sospeso tra il dolore, la paura e la rabbia.
Così era “prima”, quando tutto andava “bene”.
Una pandemia non è prevedibile, ma è ricorrente e probabile. Il piano pandemico dell’Italia era vecchio di 14 anni, i fondi sono stati spesi per realizzare programmi come la “promozione dei primi cento giorni del neonato”.
Prima, niente andava bene. Rimanere in salute, per chi non poteva permettersi cure private, era una roulette russa. Hanno tagliato la spesa sanitaria per “evitare sprechi”: gli sprechi erano le nostre vite. Chi tira su la carta giusta ce la fa, gli altri finiscono nell’elenco dei morti. Niente era pronto.
Mentre scrivo sono passati due mesi dai primi casi, dalle iniziali circoscritte zone rosse. Siamo stati tutti obbligati ai domiciliari, che, senza un sistema efficiente di screening, senza tamponi, senza protezioni neppure per i sanitari, è risultato sostanzialmente inutile. Nella migliore delle ipotesi ha rallentato un po’ la diffusione del virus.
Le case di decine di migliaia di persone si sono trasformate in lazzaretti familiari, dove non ci sono visite, controlli, né per i malati, né per chi vive con loro.
Per finanziare meglio la sanità privata hanno messo un fiammifero accanto alla dinamite: la strage nelle RSA è la conseguenza logica di un’operazione criminale.
I governi che si sono susseguiti in questi anni sono i responsabili diretti di una strage che non finirà tanto presto. A questa, prima o poi, ne seguiranno altre.
Nel cuore del primo mondo le nostre vite sono sacrificabili sull’altare del profitto. I poveri, specie se anziani e improduttivi, sono solo un costo, un peso inutile. I senza casa, i carcerati, i lavoratori dei comparti essenziali sono stati esposti al rischio di infezione, perché le loro vite non contano, sono facilmente sostituibili.
Succedeva anche “prima”, solo su scala ridotta.
Non ci sarà un dopo.
La retorica patriottica, la sospensione del diritto di manifestare e scioperare, la trasformazione dei cittadini in sorvegliati speciali, in bambini da sorvegliare e punire sono gli ingredienti di una ricetta che di nuovo ha solo l’estensione all’intera popolazione. É un’enorme operazione di controllo sociale, volta ad impedire ogni possibile insorgenza, ogni cenno di protesta. Il governo punta sulla paura, sulla frammentazione sociale, sulla polverizzazione delle relazioni, sull’assunzione collettiva della colpa, per mettere sotto controllo militare l’intera società.
Non ci sarà un dopo.
La Cina è più vicina di quanto credessimo. Le nostre vite rischiano di essere ingranaggi di un gigantesco panopticon senza pareti.
La Cina ha adottato da tempo le vite a punti. Ogni individuo ha un punteggio attribuito dallo Stato: ognuno viene valutato in base al proprio comportamento sociale. In Cina, nessun momento della quotidianità sfugge al governo. Si controlla ogni clic, ogni acquisto, ogni contatto, ogni attività sui social. Chi passa col rosso, chi frequenta oppositori al regime, chi posta commenti critici sui social perde punti.
Una buona media in pagella consente una vita migliore: un visto di viaggio, un mutuo agevolato, un prestito per avviare un impresa. Chi ha un punteggio troppo basso può persino perdere il lavoro.
Il sistema di sorveglianza cinese è basato su un incessante scambio di dati tra i provider internet e di servizi mobili e le autorità. In Cina ci sono duecento milioni di videocamere di sorveglianza: le più recenti sono dotate di dispositivi di riconoscimento facciale capaci di individuare anche i minimi particolari. Impossibile sfuggirvi. Questi occhi elettronici intelligenti osservano ogni persona nei luoghi pubblici, nei negozi, per le strade, nelle stazioni e negli aeroporti.
Questo sistema di controllo in Cina, in Corea del Sud ed altri paesi del sud est asiatico è stato utilizzato per monitorare le persone durante l’epidemia, ricostruendo i movimenti e le relazioni di ogni persona contagiata.
La sorveglianza globale, strategia “vincente” contro la diffusione del contagio in Cina e in Corea, rischia di diffondersi ovunque. I dispositivi cinesi e coreani consentono un controllo capillare della popolazione in ogni momento della vita .
La fascinazione di questo sistema, la cui efficienza è sbandierata costantemente dai media, sta imprimendo un’accelerazione a processi analoghi, già in corso da tempo nel nostro paese.
Un incubo totalitario, che, grazie alla paura della pandemia, viene proposto anche nel nostro paese. Per ora su base volontaria. Per ora.
Gli occhi elettronici, il tracciamento delle nostre carte di credito, la verifica dei nostri movimenti non sono certo una novità. Il fatto inedito è la possibilità concreta che venga “normalmente” esteso all’intera popolazione, invece di essere prerogativa di piccoli drappelli di inguaribili sovversivi.
Lo stesso fallimento delle strategie di contenimento del contagio basate sulla mera segregazione, favorisce l’accettazione del panopticon virale globale.
Non ci sarà un dopo.
Una minaccia globale crea un allarme duraturo. Viviamo da anni in un clima di emergenza: l’immigrazione, il terrorismo islamico, la risalita dello spread. I governi ogni volta si sono presi un pezzo delle nostre libertà.
Questa volta provano a prendersi tutto. La nuova guerra ha un nemico invisibile, subdolo, che potrebbe essersi insinuato nel nostro vicino di casa, nell’autista del pullman, nel colpo di tosse durante la fila al supermercato.
Il nemico è ovunque, non è più ristretto ad un particolare gruppo umano.
La gran parte delle persone ha sacrificato volontariamente la propria libertà in cambio di un’illusoria sicurezza.
La nostra prigionia, per quanto imposta dallo stato, è accettata dai più come male necessario.
Lo Stato, principale responsabile della diffusione dell’epidemia, si declina come Stato Etico, padre che comanda, punisce e imprigiona i figli per il loro “bene”. I nemici sono quelli che non si piegano alle regole, persino quelle più insensate. I nemici sono i sanitari che denunciano la strage, invece di scrivere una pagina del libro Cuore del Covid 19. I nemici sono i lavoratori che scioperano nonostante i divieti, perché il ruolo di agnello sacrificale gli sta stretto. I nemici sono i detenuti che provano a sopravvivere.
La delazione verso il vicino che trasgredisce è il premio morale per chi, strangolato dalla paura, resta intanato in casa, in inconsapevole attesa che il virus gli venga recapitato a domicilio dal parente che lavora o fa la spesa.
Il Panopticon globale è il passo successivo, la condizione che ci viene posta per passare dai domiciliari alla libertà vigilata. Sinora i più si sono piegati allo stato di eccezione senza opporre resistenza.
Non ci sarà un dopo.
Gli incontri virtuali erano l’estrema ratio per chi non poteva muoversi. Erano i luoghi privilegiati dei fruitori della pornografia, “oscena” fuori scena perché non rappresentabile e non godibile in pubblico.
Oggi “fare politica on line”, “incontrarsi sul web”, organizzare “assemblee” o conferenze on line è diventato “normale”. Un’opportunità di evasione dai domiciliari di massa. C’è gente che offre musica, che pubblica foto di vecchie vacanze, di tempi che paiono distanti anni luce.
Un surrogato. Nulla di male. Siamo tuttavia su una china scivolosa, perché “fuori” dalle nostre stanzette virtuali, c’é un mondo dove si continua a lavorare e a morire.
Nella fase 2 siamo in bilico tra i domiciliari e la libertà vigilata, facendo lo slalom tra occhi e orecchie elettronici e posti di blocco dell’esercito e della polizia.
I piccoli spazi di organizzazione politica e sociale concessi “prima” rischiano di restare interdetti molto a lungo. Non li riavremo indietro tanto facilmente.
Le assemblee “virtuali” sono utili per la narrazione, ma non permettono una reale organizzazione di lotte e iniziative, che di fatto oggi hanno il carattere della clandestinità.
Persino la solidarietà e il mutuo appoggio non benedetti dalle prefetture, si muovono sui margini del consentito, in punta di piedi.
Strappare spazi di autorganizzazione e lotta è un’urgenza indifferibile. Là, fuori dalle nostre stanze virtuali, c’è il mondo di sempre: sfruttamento, mancanza di cure, migranti imprigionati, repressione.
Il governo ci vuole divisi, sospettosi, spauriti. Ci rubano la libertà e l’umanità. Per il nostro bene. Non è facile sfuggire alla trappola della paura e del peccato. La radice del male è sin nella parola chiave di questa crisi, il grimaldello con il quale ci hanno ingabbiati, il distanziamento sociale. Perché non parlare di distanza di sicurezza, di spazio tra i corpi? Perché uno spazio fisico si può costruire ovunque, non solo in casa, invece la distanza sociale è ben più e ben altro: è la negazione delle relazioni, della polis, della comunità di lotta, del tempo che si riconquista insieme. La distanza sociale nega il mutuo appoggio e promuove la carità, nega la libertà e ci obbliga all’obbedienza, nega valore alle nostre vite e ci chiude nel cerchio produci, consuma, crepa.
Non ci sarà un dopo. Il tempo è ora.
M.M. (una prima versione di questo articolo è uscita su Arivista)