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La grande paura di piazza San Carlo

Torino 2 giugno 2017. Ogni anno il due giugno lo Stato italiano festeggia se stesso con parate e cerimonie militari. Gli antimilitaristi si mettono di mezzo per contrastare la retorica nazionalista, l’atrocità bellica messa in mostra tra lustrini e divise tirate a lucido. Il corteo attraversa il centro cittadino con numerose azioni comunicative. Dopo un lungo fronteggiamento con la polizia arriviamo in piazza Castello: i militari hanno chiuso in fretta il loro rito.
Siamo qui perché l’Italia è in guerra. Qualcuno ascolta, si avvicina, chiede. I più vengono assorbiti da gelati, bancarelle, artisti di strada, bagni nella fontana di piazza Castello.
La guerra c’è, ma è lontana. Non ci riguarda. Non ci tocca.

Torino 3 giugno 2017. A Cardiff si disputa la finale di Champion’s League tra Juventus e Real Madrid. In città è un tripudio di vessilli bianconeri, ambulanti con magliette, stendardi, fischietti, tifosi con la sciarpa. La Juve ha perso tutte le sette finali cui è arrivata. Quest’anno potrebbe essere quello del “triplete”: campionato, coppa Italia e coppa dei campioni. Tanti ci sperano.
In piazza San Carlo c’è il maxi schermo. L’appuntamento è lì. Finirà con 1527 feriti ufficiali, di cui quattro molto gravi. Mentre scrivo è arrivata la notizia che una delle donne schiacciate dalla folla si è spenta dopo 12 giorni di agonia.
Quando il Real chiude la partita infilando il quarto goal alla Juve, piazza San Carlo è ormai in preda al caos, al sangue, alla paura.

Io stavo cenando in una trattoria di Barriera. Il televisore trasmetteva il mesto secondo tempo juventino. Esco sul tre a uno. Mentre sono alla cassa la proprietaria dice “in piazza San Carlo c’è uno che spara con il mitra”. Apro internet e leggo di un attacco ai civili. È la serata dell’assalto sul London Bridge e mi convinco che non stia capitando nulla.

I tifosi si riversano in strada mesti e silenti. Le voci si moltiplicano: ora si parla di una bomba, anche da giornali e agenzie on line comincia a trapelare che qualcosa di grave stia succedendo.
Davanti al gelataio dove mi sono traghettata arriva trafelata una donna con un vistoso taglio sulla gamba, due amici la sorreggono. Siamo a chilometri da piazza San Carlo, ci sono le famigliole con i bimbi, le panchine, la fontanella. Un buon posto per fermarsi, lavare la ferita, chiedere del ghiaccio. Non si fermano: corrono barcollando come se fossero inseguiti.
Ma non c’è nessuno. Non c’è mai stato nessuno. Non è successo niente.
Nelle due settimane successive si susseguono le ipotesi sulla causa scatenante del panico. Un petardo, una transenna, un falso allarme, i motori dell’impianto di aerazione del parcheggio sotterraneo che ripartono all’improvviso. Serve una ragione che nasconda l’unica verità possibile. Quella che qualcuno sussurra ma i media e le istituzioni tacciono. L’Italia è in guerra.

Facciamo un passo indietro.
L’Italia è in guerra da molti anni. Su più fronti, interni ed esterni. Il paradigma bellico e la sua cornice propagandistica sono cambiati in modo radicale negli ultimi trent’anni. Il pacifismo degli sconfitti ma “brava gente” è morto da tempo. Una finzione potente ha chiuso in un sarcofago gli orrori coloniali, l’intervento in Spagna e la seconda guerra mondiale. Il sarcofago è ancora chiuso. Quando lo apriranno davvero sarà ormai inerte, come ogni passato che non è divenuto memoria, coscienza collettiva, forza reattiva.
Truppe italiane combattono per l’umanità, la giustizia, l’ordine internazionale o per battere il terrorismo, ma la guerra è sempre altrove. Lontana. E lontane, remote, estranee sono le vittime. I media eruttano di tanto in tanto immagini e notizie per offrire il giusto contorno emozionale alle missioni belliche delle truppe tricolori. Si consumano in fretta senza effetti collaterali.
Il ripudio della guerra è una frase dell’articolo 11 della Costituzione, quello che nessuno legge per intero e quindi pochi sanno che è l’articolo che stabilisce le condizioni per farla. Poco importa. La notizia che l’Italia è in guerra tarda ad arrivare, come quelle vecchie lettere che il caso faceva perdere nei magazzini delle Poste. Recapitate dopo decenni diventano l’archeologia di un rimpianto e nulla più.

In questi anni non sono mancati movimenti di opposizione al militarismo e alle missioni all’estero, ma faticano a permeare il corpo sociale, a divenire il fulcro di un agire che superi la dimensione testimoniale per farsi azione diretta. Eppure la guerra non è solo altrove.
A pochi passi dalle nostre case si producono e si testano le armi impiegate nelle guerre di ogni dove.
Le usano le truppe italiane nelle missioni di “pace” all’estero, le vendono le industrie italiane ai paesi in guerra. Queste armi hanno ucciso milioni di persone, distrutto città e villaggi, avvelenato irrimediabilmente interi territori.
In provincia di Torino l’industria bellica aerospaziale è uno dei settori trainanti, un business che non va mai in crisi. Queste perle della nostra produzione manifatturiera hanno il plauso bipartisan dei Pentastellati al Comune e dei Dem alla Regione.
Quest’anno all’Alenia di Caselle Torinese, oltre a costruire un nuovo lotto di cacciabombardieri Eurofighter, faranno anche droni da combattimento. Gli aerei senza pilota che estraniano chi uccide dalla morte che infligge. A migliaia di chilometri di distanza, seduti ad una consolle, misurano, prendono la mira, calcolano la velocità e l’impatto. Come in un video gioco. Solo i morti sono veri. Veri ma con la stessa immaterialità di un film.
Ogni giorno qualcuno muore nel Mediterraneo. Nei prossimi mesi ne moriranno di più: il governo ha deciso di mettere sotto controllo le navi dei volontari che assistono i migranti sui barconi. Presto guardia costiera e militari imporranno la loro presenza sulle imbarcazioni. A chi non ci sta verrà vietato di approdare in Italia.
Tra i sommersi e i salvati ci sono robusti muri materiali: la guardia costiera, le leggi sull’immigrazione, le prigioni per i senza carte, gli accordi con i paesi di transito per trattenimenti e rimpatri. In quei posti la gente in viaggio viene picchiata, torturata, stuprata, uccisa. I mandanti sono a Roma. Gentiloni, Minniti sono alla consolle: ad ogni click qualcuno muore.
Chi promuove guerre in nome dell’umanità paga il governo della Libia, della Turchia, del Niger, del Ciad, perché i profughi vengano respinti e deportati.
La guerra è in casa. Nelle strade delle nostre periferie, dove i nemici sono i poveri, gli immigrati, i senza tetto, chi si oppone ad un ordine sociale feroce.
Tra sommersi e salvati c’è anche una spessa muraglia simbolica. Noi e loro. Senza quella muraglia sarebbe più facile riconoscere la guerra. In Afganistan, in Iraq, nel Mediterraneo e dietro casa nostra.
Magari tra le bancarelle del mercato di Porta Palazzo dove il sangue di un ragazzo senegalese bagna le scarpe e il marciapiede, durante una normale operazione di polizia. È successo proprio a Torino dieci giorni dopo piazza San Carlo. Succede ogni giorno. Qualche volta qualcuno fa un video.
La retorica sulla sicurezza alimenta l’identificazione del nemico con il povero, per spezzare la solidarietà tra gli oppressi, affinché non si alleino contro chi li opprime. La retorica della sicurezza alimenta l’immaginario della guerra di civiltà, della paura della Jihad globale, mentre il governo italiano è alleato di paesi che finanziano chi semina il terrore.
Criminalizzare migranti e profughi mantiene salda l’illusione che la guerra sia altrove. Governo e opposizione soffiano sul fuoco della guerra tra i poveri come guerra di civiltà. Serve, nel male di vivere quotidiano, a rinforzare la sciocca speranza di stare dalla parte dei salvati.

Poi capita il catino infernale di piazza San Carlo. Le istituzioni cittadine e nazionali se la cavano moltiplicando divieti, puntando il dito sui venditori abusivi, blindando le piazze. Un altro pezzo di libertà che vola via nell’afa estiva.

Piazza San Carlo è ben altro. Dovremo imparare ad attraversarne lo spazio simbolico e reale se vogliamo che i nostri percorsi contro la guerra, il militarismo, l’estendersi dei meccanismi disciplinari trovino nuovi compagni di strada.
Probabilmente non sapremo mai cosa sia successo, quale scintilla abbia innescato le tre grandi ondate di panico, che hanno trasformato il salotto buono di Torino nell’anticamera di Kabul, Aleppo, Baghdad, Mosul…

In fondo conta poco, molto poco.
Sappiamo però che piazza San Carlo è lo specchio del nostro vivere, di un tempo, dove la guerra, che si finge non ci sia, ha infiltrato l’immaginario, colonizzandolo. Nei prossimi mesi il governo ci ruberà un altro pezzo di libertà, per proteggerci dalla paura di una guerra che non si deve nominare.

I semi della paura hanno attecchito nel profondo del corpo sociale. L’uomo con il mitra non c’era, nessuno ha sparato, ma il bilancio è quello di qualsiasi battaglia: morti e feriti.
Per anni ci siamo chiesti perché tanti, troppi, si girassero dall’altra parte di fronte agli uccisi, ai bambini annegati, alla gente che nella morsa dell’inverno guadava i torrenti della Macedonia, sfidava il deserto, le bande armate e gli eserciti. Per anni ci siamo chiesti perché si combattessero tante guerre senza significativi movimenti di opposizione.
Sebbene qualcosa in più sia successo nell’opposizione alle basi, ai poligoni, agli aeroporti militari, sarebbe inutile nascondersi che spesso le ragioni dell’antimilitarismo sono state rinforzate da lotte ambientali e per la salute.
È finito il tempo delle illusioni. Siamo in guerra e questa guerra ha un ampio consenso.

È finito anche il tempo dell’ambiguità possibile. Lo hanno capito bene i pentastellati, che dopo anni vissuti pericolosamente sullo spartiacque del razzismo di Stato, hanno fatto una veloce scelta di campo. Sono stati abili, miscelando corruzione e accoglienza. Dopo aver imbarcato e poi sbarcato i peggiori attrezzi di Mafia Capitale, Virginia Raggi si schiera contro il business dell’immigrazione e chiude le porte a profughi e migranti.
A Torino Chiara Appendino, sindaca No Tav con nuance ecologista, ha fatto un rimpasto in giunta, nominando assessore all’ambiente Unia, uno che si è fatto le ossa nei comitati per lo sgombero delle baraccopoli rom. A Mirafiori, dove i tetti della vecchia fabbrica sono distese di amianto, potranno dormire sonni tranquilli.
Il governo aveva battuto tutti d’anticipo, con le nuove leggi sull’immigrazione e la sicurezza urbana.
Fanno leva sulla paura per stringere le maglie del controllo, moltiplicare i dispositivi disciplinari, creare nuove prigioni.

Piazza San Carlo rappresenta uno spartiacque. Dal 3 giugno sappiamo che la paura ha spinto nella propria rete il pallone. Un autogol. Peccato non fosse un gioco.
Qualcuno, dall’interno della piazza ha osservato e poi scritto dell’incapacità di riconoscersi nell’altro, nel governare collettivamente la paura. Al di là di qualche episodio di solidarietà, il panico ha avuto la meglio su tutto.
Il governo della paura è la scommessa dei cacciatori di poltrone di ogni colore. Una partita che giocano con determinata ferocia.

Torino 12 giugno 2017. Al mercato via Porpora un uomo di mezza età ha rifiutato un volantino sulla campagna fascista contro le baraccopoli rom, dicendo “Devono bruciare vivi. Tutti.” È calmo, freddo, distante. Nonostante l’afa un brivido mi scende lungo la schiena.
Attraversare e comprendere la paura è necessario per sconfiggerla, per impedire che si trasformi in altra violenza, in pogrom, in baracche che bruciano, in blocchi stradali per fermare una dozzina di profughe. In plauso per la polizia che massacra un ragazzo africano.
Quando si muore di nulla, diventa più semplice uccidere per nulla. O, peggio, firmare una delega in bianco agli imprenditori politici del terrore.
La strada è in salita. Ma nella cassetta degli attrezzi dei movimenti di opposizione sociale si sono sedimentate pratiche e saperi capaci di spingere in direzione opposta e contraria la paura. Aprire le piazze, moltiplicare le reti di mutuo appoggio, far crescere nelle periferie luoghi di incontro, scambio conoscenza, opportunità di lotta è una scommessa forte ma necessaria.
La paura può cambiare di campo. Le ragioni di chi punta su una società di liber* ed eguali sempre più devono farsi pratica quotidiana.
Non è un gioco facile. Ma è l’unico che vale la pena giocare.
Maria Matteo
(quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Arivista)

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