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Vakhtang. Omicidio di Stato

Era nato in Georgia 37 anni fa. La sua vita è finita alle prime ore del 18 gennaio.
Vakhtang Enukidze è stato massacrato di botte dalla polizia. Era rinchiuso nel CPR di Gradisca d’Isonzo. Siamo sul confine orientale, dove approdano quelli che riescono ad entrare in Europa dalla rotta balcanica.
La fine di Vakhtang l’hanno raccontata i suoi compagni di prigionia.
Dieci poliziotti in tenuta antisommossa sono entrati nella sua cella e l’hanno accerchiato e picchiato. Lui è caduto, sbattendo la testa contro un muro. Mentre era a terra alcuni poliziotti gli hanno messo i piedi sul collo e sulla schiena, l’hanno ammanettato e portato via.
“Lo stavano tirando con le manette come un cane, non puoi neanche capire, questo davanti a noi tutti” lo ha detto al telefono ai solidali dell’Assemblea No Cpr No Frontiere un suo compagno recluso.
Un altro testimone, amaro, sostiene che: “V. é morto per niente. Aveva accettato di essere deportato in Georgia. Ora il suo corpo è in una cella frigorifera. Oggi è toccato a lui, domani potrebbe toccare a chiunque di noi. Bisogna far sapere a tutti quello che è successo.”
Vakhtang è stato pestato duramente, una o due volte. È stato pesantemente sedato ed ha agonizzato per ore, “con la bava alla bocca” senza che nessuno lo soccorresse.
Poi è morto. Forse già al CPR, forse poco dopo.

Una rissa con altri prigionieri è l’alibi fornito ai media dalla polizia per assolvere se stessa.
Un alibi che ha cominciato a traballare quando le testimonianze di alcuni reclusi sono filtrate anche sui media.
La Procura ha aperto un’inchiesta, ma questo non ha impedito che sei testimoni fossero immediatamente deportati nei paesi d’origine, perché non raccontassero la fine atroce del loro compagno. Un monito per gli altri prigionieri, il segno inequivocabile che nel nostro paese i diritti umani sono solo vuota retorica, perché poveri e immigrati, specie se ribelli, ne sono costitutivamente esclusi.
Dopo la morte di Vakhtang la polizia ha sequestrato i telefoni di chi aveva parlato con i solidali. Le telecamere dei cellulari erano già state spaccate all’ingresso nei CPR.
A quattro attivisti dell’Assemblea No CPR No Frontiere è stato dato il foglio di via da Gradisca.
Il 28 gennaio diversi quotidiani hanno diffuso anticipazioni sull’autopsia, che mirano a spostare la responsabilità della morte di Vakhtang dalla polizia ai gestori del CPR, la cooperativa EDECO di Padova. Vakhtang non sarebbe morto per le botte ma per un edema polmonare, forse provocato dalla massiccia dose di psicofarmaci che gli era stata somministrata. Lui stesso aveva raccontato alla sorella di essere stato pesantemente sedato sin dal suo ingresso al CPR.
Si prospetta un rimpallo di responsabilità mirante a gettare nebbia su una vicenda sin troppo chiara, tanto chiara che i testimoni sono stati tutti deportati, nonostante una legge avrebbe consentito alla Procura di farli restare in Italia con un permesso per motivi di “giustizia”.
Noi sappiamo che un uomo sano e robusto è morto sedato da un sovraccarico di farmaci, dopo aver subito un pestaggio dalla polizia, nella vana attesa di soccorsi per più di 24 ore. Quell’uomo era rinchiuso in una prigione amministrativa, dove si viene privati della libertà perché non si ha il foglio di carta che divide chi ha diritti da chi non ne ha. I responsabili della sua morte sono lo Stato e le guardie del Cpr: Vakhtang è un morto di Stato.
Uno dei tanti.
Nei 20 anni di storia della detenzione amministrativa nel nostro paese, i CPR sono stati più e più volte distrutti da chi vi era recluso. Nonostante la durissima repressione, proteste, rivolte e fughe sono state quasi continue in tutta la penisola.
A Torino il CPR di corso Brunelleschi negli ultimi mesi è stato teatro di lotte, incendi, scioperi della fame.
A Gradisca il CIE era stato distrutto e chiuso nel 2013: durante l’ultima rivolta un ragazzo, stordito e soffocato dai lacrimogeni, era precipitato del tetto ed era morto dopo mesi di agonia.
Il nuovo CPR, ricostruito come una fortezza, è stato aperto il 16 dicembre. Immediatamente vi sono state rivolte, fughe, cortei e presidi degli oppositori ai CPR e alle frontiere.
Un mese dopo è stato ucciso Vakhtang.
I CPR, che tre ministri dell’Interno di tre diversi governi stanno moltiplicando sul territorio, vanno chiusi tutti e subito.
Sia chiaro. I CPR sono luoghi di morte anche quando non ci muore nessuno, perché sono parte di un dispositivo, che serve a filtrare lavoratori docili, perché sottoposti al costante ricatto dell’espulsione se perdono, con il lavoro, anche la libertà di restare nel nostro paese.
Chi chiude gli occhi di fronte alle prigioni per migranti, alle frontiere chiuse, agli schiavi che nei campi, nelle fabbriche, nei magazzini, nelle case rendono più ricchi i ricchi, è complice di un sistema sociale feroce in cui tutti rischiamo di essere schiacciati.

Posted in immigrazione, Inform/Azioni, repressione/solidarietà.