L’abbassamento del rating dell’Italia e quello – annunciato ma non fatto – della Francia hanno animato la scorsa settimana. Ne abbiamo parlato con Francesco Carlizza, che ci ha aiutato a districarci nella giungla di anglicismi e cifre che decide il destino di miliardi di esseri umani.
Le agenzie di rating – quelle importanti – sono solo tre. In tre controllano il 96% del mercato. La prima è Standard’s&Poor che ne controlla circa il 40%, Moody’s che arriva al 39% e Fitch che si aggiudica il 16%. Queste tre agenzie sono diventate importanti nel 1975, quando la società per la borsa statunitense decise che i debiti delle società quotate dovessero essere certificati da una delle tre. La conseguenza è stata che in tre si sono accaparrate tutto il mercato. Queste agenzie di rating non sono certo organismi neutrali: i proprietari sono fondi di investimento, hanno forti interessi all’interno del mercato finanziario, non sono arbitri di una partita giocata da altri. Il solo fatto di effettuare delle previsioni o comunque delle analisi, fa sì che queste diventino vere. Se un’agenzia considerata credibile asserisce che una certa società va male, ne conseguirà inevitabilmente che vada male davvero, perché chi investe vende per non correre rischi e contribuisce così ad accelerare (a volte anche ad innescare) la crisi. È un meccanismo decisamente perverso.
Proviamo a capire cosa è successo nell’ultima settimana. I dati sul declassamento di Italia, Francia e altri dieci paesi europei sono stati forniti il venerdì sera, quando i mercati sono chiusi, ma le voci di retrocessione circolavano già nel pomeriggio. Fitch, la terza società di rating, che è di proprietà di un miliardario francese, si è subito affrettata a dire che confermava la tripla A della Francia.
Quest’estate Standard & Poor’s aveva retrocesso gli Stati Uniti dalla tripla A ad AA+. Due mesi dopo la visita dell’FBI e alcune class action per alcune valutazioni errate la società ha pensato bene di sostituire il direttore generale con un altro che non infastidisse gli Stati Uniti.
Le motivazioni della retrocessioni di dieci paesi europei erano già contenute nella previsione, fatta da tempo, che l’Europa stesse entrando in una fase recessiva. Nei fatti la retrocessione di S&P è una bocciatura della politica monetaria di Angela Merkel, che ha scelto di non far crescere l’inflazione, riducendo però i costi sociali, stampando moneta. Merkel mira ad un euro forte, capace di sostituire il dollaro.
Ascolta l’intervista con Francesco Carlizza